Buon compleanno Pt1
Posted: Mon Apr 18, 2022 11:14 pm
[MI 165] Un barattolo di latta - Costruttori di Mondi
Buon compleanno Pt1
Lentamente un altro inverno era passato.
Era caduta a gennaio una quantità di neve, quale non se ne aveva memoria da oltre mezzo secolo: ancora a metà di marzo se ne trovava traccia in città.
Neve gelata, annerita dallo smog, persisteva ai bordi della via che costeggiava la massicciata ferroviaria e portava all'Azienda in cui lavoravo.
Come la neve di quell'anno, dentro me, non si scioglieva un grumo amaro di emozioni e nostalgia che aveva lasciato ricordo di lei.
Si chiamava Martina, lavoravamo nella stessa Azienda: due occhi dolci e mansueti, del colore dell’ambra quando il sole ne esalta le sfumature dorate.
Sul viso, la bellezza dei suoi venticinque anni, velata dall’ombra di chi ha perduto le illusioni della prima giovinezza: quelle che la vita promette, negandole poi alla prova della realtà.
Aveva una storia sbagliata alle spalle: un matrimonio finito anzitempo e un bimbo di sette anni che cresceva da sola.
Del padre di suo figlio non parlava mai.
Di certo doveva essere stato un bel bastardo: si era eclissato tre mesi dopo la nascita del bimbo, lasciandola ad arrangiarsi senza più dare segno di sé.
Martina aveva un aria fragile, ma con la nobiltà dei modi conferita dalla dignità con cui affrontava l’asprezza del vivere.
Lavorare e allevare un figlio in solitudine, con tutto quanto questo comportava, non era cosa facile per nessuno.
Saperla immersa in quei problemi mi procurava una spina dolorosa nell’anima.
I nostri rapporti di lavoro, per i rispettivi ruoli, erano quotidiani: compievamo sovente il giro della rete vendita insieme, usando l’auto aziendale.
Io mi occupavo della pubblicità e dell’immagine dei nostri negozi in franchising, lei era responsabile del prodotto aziendale per la linea donna.
A sera si rientrava e di consueto sostavamo in macchina all’inizio della via che portava all'Azienda, regalandoci il tempo di fumare una sigaretta o poco più. Si chiacchierava del lavoro, di cose delle nostre vite e di come immaginavamo e desideravamo il futuro.
Il sole che tramontava al fondo della strada riempiva il lunotto posteriore di bagliori dorati, creando una cornice di serenità a quei momenti di amichevole relax.
Momenti che per me erano colmi di una soffusa magia.
La sentivo vicina, ma non per lo spazio esiguo dell'abitacolo, il suo profumo delicato, la sua voce morbida, mi avvolgevano in un abbraccio soave: era la sensazione di questa intimità di anime a renderli speciali.
Cadevo in una calda vertigine, perdendomi nel candore del suo sguardo, nel movimento delle labbra, mi lasciavo prendere da un totale abbandono al fluire morbido delle sue parole: una suadente empatia si generava tra noi.
Sovente indugiavo nella fantasia del come sarebbe stata una vita con lei.
Immaginavo lo svolgersi del nostro quotidiano: la casa che avrei abitato con lei, la pensavo con grandi finestre piene di luce e un piccolo giardino, nel quale i nostri figli avrebbero giocato.
Li vedevo dondolarsi su un’altalena o bagnarsi in una piccola piscina di plastica durante l’estate.
Pensavo agli impegni del lavoro assolti insieme, i viaggi compiuti per seguire ogni stagione i saloni della moda: il Pitti Uomo a Firenze, il SEM a Parigi, le collezioni di stilisti italiani e internazionali nella settimana della moda milanese, le puntate annuali a catturare idee e tendenze moda a Londra. Los Angeles o New York.
Camminare insieme lungo le strade di quelle grandi città, per visitare i negozi più aggiornati del settore, i grandi magazzini del fashion, per trovare spunti su soluzioni espositive dell’arredo dei punti vendita o nella vetrinistica.
Fermarci a sera, dopo una giornata di faticoso peregrinare per i luoghi d’interesse, in qualche intimo ristorante del posto, per consumare una cena con piatti dal sapore esotico locale.
Le mie fantasie si fermavano a quel limite, senza contemplare i dopo cena, delle notti che avremo trascorso insieme non volevo figurarmi nulla.
Era per una sorta di strano pudore, quasi un rispetto verso di lei, un ritirarsi della mente per non coinvolgere in una fantasia carnale la sua figura,
facendola parte di un pensiero che involgarisse quel desiderio che pure mi faceva fremere.
Sentivo un poco ridicola e fuori dal tempo quella mia premura: era elevarne la femminilità a qualcosa di etereo, di idealizzato, allontanarla dalla dimensione fisica dell’amore che pure era implicita nel desiderarla.
Ma per un bizzarro meccanismo mentale, non mi riusciva di pensare a lei in altri termini che in quello platonico, senza avvertire necessità di sesso.
Per la prima volta da che avevo passato l’adolescenza, mi capitava di sentire il bisogno di un sentimento di purezza, delicato e perfino casto.
Di certo, superata la soglia dei trent’anni, mi stavo rincoglionendo. Regredivo palesemente a una forma di affettività infantile.
Pur subendo un costante turbamento, confinavo quella passione tra gli argini di un silenzio che mi imponevo: penoso come un cilicio penitenziale, per il timore che, anche un solo sguardo in eccesso, potesse distruggere quell'incanto.
Ero preso come un sedicenne alla prima cotta, ma non potevo rivelarlo a nessuno: ero un uomo sposato e con una figlia di cinque anni più vecchia del suo bimbo, inoltre lei veniva da una storia disastrosa, che mai avrei potuto chiederle od offrirle in questa situazione?
Era evidente che non ci fosse possibilità di una cosa concreta tra noi, se non generando uno stravolgimento radicale delle nostre attuali esistenze.
Non era certo una donna con cui vagheggiare una facile avventura: era limpida come un cristallo.
Una relazione clandestina mi ripugnava profondamente, meritava ben di più di una storia fatta di momenti rubati alle nostre vite regolari.
Incontri consumati in piccoli alberghi a ore della collina, o in auto con i finestrini appannati per la condensai, nel buio di una strada deserta,ikjki al termine di una giornate di lavoro.
Con lei non poteva esistere un rapporto vissuto nello squallore di una continua menzogna.
Non mi restava che vivere ciò che provavo nel silenzio.
Inoltre cosa mi assicurava che ricambiasse quanto sentivo?
L’amicizia e la dolcezza che mi mostrava erano un segno troppo incerto: il rischio di scambiare il semplice affetto amicale per qualcosa di più profondo era altissimo.
Quante volte si era creata una pericolosa vicinanza dei nostri volti, con i respiri uniti nello scorrere delle parole, del riso, dei sorrisi e gli sguardi d’intesa.
Quante volte, quando un attimo di silenzio fra le nostre frasi pareva un'eternità da riempire, avevo pensato: “ecco. ora la bacio”.
In quei momenti i nostri occhi si incontravano ed entrambi parevamo consci di ciò che stava per accadere, ineluttabile come il sole che si spegneva alle nostre spalle.
Poi per qualche secondo d’incertezza quell'attimo fuggiva, si dissolveva come un pensiero sconveniente di cui ci si pente nello stesso momento in cui sorge. E non accadeva nulla.
Ma era quanto bastava perché, la fragile barchetta dell’intenzione, nel ripensarci poi da solo, apparisse come un relitto nell'oceano delle occasioni perdute.
Restava in bocca la sensazione mesta di una medicina dal sapore amaro, ingoiata non potendo fare in modo diverso.
Nel salutarci, lei mi sfiorava la guancia con un bacio rapido e innocente, o la carezza lieve della mano, poi apriva la portiera e usciva per raggiungere la sua auto, parcheggiata più avanti nella via.
Restavo a guardare la sua figurina allontanarsi con l'ombra lunga della sera che anticipava i suoi passi.
Le tempie mi pulsavano: “la amo” mi dicevo, con un languore dolente che serrava la gola.
Rimasto solo, inspiravo a occhi chiusi la sua essenza che ancora albergava nella macchina: la fragranza conturbante lasciata dal suo profumo.
(Continua)
Buon compleanno Pt1
Lentamente un altro inverno era passato.
Era caduta a gennaio una quantità di neve, quale non se ne aveva memoria da oltre mezzo secolo: ancora a metà di marzo se ne trovava traccia in città.
Neve gelata, annerita dallo smog, persisteva ai bordi della via che costeggiava la massicciata ferroviaria e portava all'Azienda in cui lavoravo.
Come la neve di quell'anno, dentro me, non si scioglieva un grumo amaro di emozioni e nostalgia che aveva lasciato ricordo di lei.
Si chiamava Martina, lavoravamo nella stessa Azienda: due occhi dolci e mansueti, del colore dell’ambra quando il sole ne esalta le sfumature dorate.
Sul viso, la bellezza dei suoi venticinque anni, velata dall’ombra di chi ha perduto le illusioni della prima giovinezza: quelle che la vita promette, negandole poi alla prova della realtà.
Aveva una storia sbagliata alle spalle: un matrimonio finito anzitempo e un bimbo di sette anni che cresceva da sola.
Del padre di suo figlio non parlava mai.
Di certo doveva essere stato un bel bastardo: si era eclissato tre mesi dopo la nascita del bimbo, lasciandola ad arrangiarsi senza più dare segno di sé.
Martina aveva un aria fragile, ma con la nobiltà dei modi conferita dalla dignità con cui affrontava l’asprezza del vivere.
Lavorare e allevare un figlio in solitudine, con tutto quanto questo comportava, non era cosa facile per nessuno.
Saperla immersa in quei problemi mi procurava una spina dolorosa nell’anima.
I nostri rapporti di lavoro, per i rispettivi ruoli, erano quotidiani: compievamo sovente il giro della rete vendita insieme, usando l’auto aziendale.
Io mi occupavo della pubblicità e dell’immagine dei nostri negozi in franchising, lei era responsabile del prodotto aziendale per la linea donna.
A sera si rientrava e di consueto sostavamo in macchina all’inizio della via che portava all'Azienda, regalandoci il tempo di fumare una sigaretta o poco più. Si chiacchierava del lavoro, di cose delle nostre vite e di come immaginavamo e desideravamo il futuro.
Il sole che tramontava al fondo della strada riempiva il lunotto posteriore di bagliori dorati, creando una cornice di serenità a quei momenti di amichevole relax.
Momenti che per me erano colmi di una soffusa magia.
La sentivo vicina, ma non per lo spazio esiguo dell'abitacolo, il suo profumo delicato, la sua voce morbida, mi avvolgevano in un abbraccio soave: era la sensazione di questa intimità di anime a renderli speciali.
Cadevo in una calda vertigine, perdendomi nel candore del suo sguardo, nel movimento delle labbra, mi lasciavo prendere da un totale abbandono al fluire morbido delle sue parole: una suadente empatia si generava tra noi.
Sovente indugiavo nella fantasia del come sarebbe stata una vita con lei.
Immaginavo lo svolgersi del nostro quotidiano: la casa che avrei abitato con lei, la pensavo con grandi finestre piene di luce e un piccolo giardino, nel quale i nostri figli avrebbero giocato.
Li vedevo dondolarsi su un’altalena o bagnarsi in una piccola piscina di plastica durante l’estate.
Pensavo agli impegni del lavoro assolti insieme, i viaggi compiuti per seguire ogni stagione i saloni della moda: il Pitti Uomo a Firenze, il SEM a Parigi, le collezioni di stilisti italiani e internazionali nella settimana della moda milanese, le puntate annuali a catturare idee e tendenze moda a Londra. Los Angeles o New York.
Camminare insieme lungo le strade di quelle grandi città, per visitare i negozi più aggiornati del settore, i grandi magazzini del fashion, per trovare spunti su soluzioni espositive dell’arredo dei punti vendita o nella vetrinistica.
Fermarci a sera, dopo una giornata di faticoso peregrinare per i luoghi d’interesse, in qualche intimo ristorante del posto, per consumare una cena con piatti dal sapore esotico locale.
Le mie fantasie si fermavano a quel limite, senza contemplare i dopo cena, delle notti che avremo trascorso insieme non volevo figurarmi nulla.
Era per una sorta di strano pudore, quasi un rispetto verso di lei, un ritirarsi della mente per non coinvolgere in una fantasia carnale la sua figura,
facendola parte di un pensiero che involgarisse quel desiderio che pure mi faceva fremere.
Sentivo un poco ridicola e fuori dal tempo quella mia premura: era elevarne la femminilità a qualcosa di etereo, di idealizzato, allontanarla dalla dimensione fisica dell’amore che pure era implicita nel desiderarla.
Ma per un bizzarro meccanismo mentale, non mi riusciva di pensare a lei in altri termini che in quello platonico, senza avvertire necessità di sesso.
Per la prima volta da che avevo passato l’adolescenza, mi capitava di sentire il bisogno di un sentimento di purezza, delicato e perfino casto.
Di certo, superata la soglia dei trent’anni, mi stavo rincoglionendo. Regredivo palesemente a una forma di affettività infantile.
Pur subendo un costante turbamento, confinavo quella passione tra gli argini di un silenzio che mi imponevo: penoso come un cilicio penitenziale, per il timore che, anche un solo sguardo in eccesso, potesse distruggere quell'incanto.
Ero preso come un sedicenne alla prima cotta, ma non potevo rivelarlo a nessuno: ero un uomo sposato e con una figlia di cinque anni più vecchia del suo bimbo, inoltre lei veniva da una storia disastrosa, che mai avrei potuto chiederle od offrirle in questa situazione?
Era evidente che non ci fosse possibilità di una cosa concreta tra noi, se non generando uno stravolgimento radicale delle nostre attuali esistenze.
Non era certo una donna con cui vagheggiare una facile avventura: era limpida come un cristallo.
Una relazione clandestina mi ripugnava profondamente, meritava ben di più di una storia fatta di momenti rubati alle nostre vite regolari.
Incontri consumati in piccoli alberghi a ore della collina, o in auto con i finestrini appannati per la condensai, nel buio di una strada deserta,ikjki al termine di una giornate di lavoro.
Con lei non poteva esistere un rapporto vissuto nello squallore di una continua menzogna.
Non mi restava che vivere ciò che provavo nel silenzio.
Inoltre cosa mi assicurava che ricambiasse quanto sentivo?
L’amicizia e la dolcezza che mi mostrava erano un segno troppo incerto: il rischio di scambiare il semplice affetto amicale per qualcosa di più profondo era altissimo.
Quante volte si era creata una pericolosa vicinanza dei nostri volti, con i respiri uniti nello scorrere delle parole, del riso, dei sorrisi e gli sguardi d’intesa.
Quante volte, quando un attimo di silenzio fra le nostre frasi pareva un'eternità da riempire, avevo pensato: “ecco. ora la bacio”.
In quei momenti i nostri occhi si incontravano ed entrambi parevamo consci di ciò che stava per accadere, ineluttabile come il sole che si spegneva alle nostre spalle.
Poi per qualche secondo d’incertezza quell'attimo fuggiva, si dissolveva come un pensiero sconveniente di cui ci si pente nello stesso momento in cui sorge. E non accadeva nulla.
Ma era quanto bastava perché, la fragile barchetta dell’intenzione, nel ripensarci poi da solo, apparisse come un relitto nell'oceano delle occasioni perdute.
Restava in bocca la sensazione mesta di una medicina dal sapore amaro, ingoiata non potendo fare in modo diverso.
Nel salutarci, lei mi sfiorava la guancia con un bacio rapido e innocente, o la carezza lieve della mano, poi apriva la portiera e usciva per raggiungere la sua auto, parcheggiata più avanti nella via.
Restavo a guardare la sua figurina allontanarsi con l'ombra lunga della sera che anticipava i suoi passi.
Le tempie mi pulsavano: “la amo” mi dicevo, con un languore dolente che serrava la gola.
Rimasto solo, inspiravo a occhi chiusi la sua essenza che ancora albergava nella macchina: la fragranza conturbante lasciata dal suo profumo.
(Continua)