Chez Marco Pt.2
Posted: Sat Jan 22, 2022 6:18 pm
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Chez Marco Pt.2
Marco, da perfetto anfitrione e anima della serata, sciorinava curiosi aneddoti del viaggio, a un certo punto ha proposto di fare un po’ di musica: si è assentato per un momento ed è tornato con in mano un magnifico Sitar.
Era la prima volta che ne vedevo uno da vicino: esteticamente era esaltante, gli intarsi e le preziose decorazioni madreperlacee erano stupefacenti.
Giulio non ha resistito alla tentazione gli ha letteralmente strappato di mano lo strumento, eccitato come un bambino ha provato a suonarlo: in postura da “Ravi Shankar” e con la solita invidiabile facilità, dopo aver compreso la disposizione delle note sul manico, è riuscito a cavarne suoni gradevoli all’orecchio.
Marco aveva portato dal viaggio anche un piccolo armonium indiano: una sorta di organetto con tastiera e un mantice posto sul retro che, azionato durante l’esecuzione, ne alimentava il suono.
Senza esitare ha preso a eseguire la melodia suadente di un Rāga.
Piero che con la sua ragazza avevano condiviso quel mitico viaggio, imbracciato il proprio flauto traverso si è messo ad accompagnarlo.
Lui intorno ai trent’ anni, con lineamenti marcati, lunghi e folti capelli corvini, grandi baffi e mosca al mento era un personaggio affascinante:
a guardarlo appariva come un clone di Frank Zappa.
Giulio ha lasciato il sitar a un altro commensale e ha messo mano all’inseparabile chitarra “Ovation”, da un angolo sono comparse delle “tabla” e dei cimbali, per dare supporto ritmico dell’estemporanea jam session.
Inevitabilmente ci siamo trovati a cantare “My Sweet Lord” di Geoge Harrison e "Gange Mai", il brano mistico dal primo album dei Quintessence.
Naturalmente mi sono guardato bene da cercare di suonare alcunché o di cantare: la mia nota mancanza d'intonazione e capacità di produrre qualcosa di udibile con qualsivoglia strumento, mi induceva al silenzio.
Però tamburellavo con le dita sulla tavola per tutto il tempo, seguendo il ritmo di ogni pezzo.
Al termine dell’ improvvisato concerto, siamo passati ad ascoltare brani da due album freschi d’uscita che Marco teneva a farci sentire.
Il primo 33 giri era "The Inner Mounting Flame": il debutto della Mahavishnu Orchestra, con John McLaughlin alla chitarra, Billy Cobham alla batteria e il violino di Jean-Luc Ponty.
Quest’ultimo era un giovane prodigio che avevo visto esibirsi in un concerto dei Curved Air a cui ero stato.
Il secondo album era "Caravanserai" di Carlos Santana, aveva una copertina stupenda: un enorme sole al tramonto, su un deserto nei toni d’azzurro, solcato da una lunga carovana di cammelli.
Marco ha detto che si trattava di un è un disco intensamente spirituale: un viaggio sonoro esotico ed esoterico, un flusso travolgente di musica che si avvicenda senza interruzioni e in cui ogni brano si fonde con il successivo.
Rappresentava il punto di svolta della band, che lasciava i sound latini per approdare al jazz fusion.
L’album, a suo parere, era un vero “trip": quindi andava ascoltato solamente dopo aver acceso un corposo “cilum”.
Alla parola “cilum” hanno iniziato ad aumentarmi le pulsazioni.
Come Giulio aveva anticipato, in questa cena avremmo avuto la nostra iniziazione al fumo dello “shit”
Ovviamente provavo grande curiosità ed eccitazione, ma anche un filo d’ansia.
Fumare hashis era un’esperienza già compiuta da molti nostri amici o compagni di scuola, in genere si parlava di un’esperienza strafiga: uno stato d’alterazione dei sensi che ti apriva a una dimensione sensoriale inesplorata, un viaggio affascinante e inconsueto della mente e del corpo, qualcosa fin di mistico.
Ma si diceva anche di “viaggi andati male”, i così detti “bad trip”:
sballi con malessere fisico e prostrazione mentale che si definivano di “paranoia”, nei quali subivi sensazioni di nausea e in certi casi vomitavi anche il pranzo di due giorno prima.
Per quelli della nostra età che seguivano un’ideale di vita freak, restava una tappa di passaggio obbligato: il ticket per essere considerato uno “giusto", in altre parole “autentico", uno che sceglieva d’essere così per convinzione e non per moda o perché facesse figo.
Segnava un passaggio dalla condizione di adolescente a quella di adulto, un po’ come guidare una macchina o scopare per la prima volta.
Restava comunque l’ansia di un territorio ignoto, l’assunzione di qualcosa che non potevi controllare, l’inquietudine del salto nel vuoto.
Piero si è occupato della preparazione, con una cura rituale che aveva qualcosa di sacro: ha legato i lunghi capelli in una coda di cavallo e messo nei gesti successivi la solennità di chi ripete gesti sedimentati in secoli di tradizione.
La cosa mi è piaciuta, ricordava la cerimonia del tè giapponese, toglieva banalità al fumare lo shit in comune: si percepiva il sapore antico di un mondo lontano dalla nostra cultura occidentale.
Da un astuccio in velluto ha estratto un cilum in avorio intarsiato che doveva possedere una lunga storia: era di forma conica, lungo una trentina di centimetri, con una bocca di carico dal diametro, all’incirca
di una decina.
Da una busta di plastica ha estratto un mattoncino avvolto nella stagnola: lo ha aperto e per la prima volta, ho visto il colore bruno e l’aspetto lucido e pongoso dello Shit.
L’aroma era forte e si è sparso all’intorno, faceva frizzare le narici.
Con la premura di un maestro che inizi all’arte il nuovo discepolo, mi ha spiegato che si trattava di Pakistano nero ”oppiato”.
Mi ha poi spiegato che si definiva così l’hashish che nella lavorazione veniva impastato con una porzione d’oppio.
Pare che per questa particolarità era assai raro da trovare sulle nostre piazze di spaccio e che possedesse proprietà allucinogene, cosa che lo rendeva particolarmente richiesto e prezioso.
Ha preso a sbriciolarne una certa quantità, fino a ottenere un discreto mucchietto.
Sonia, la sua ragazza, ha al contempo sbriciolato mezzo pacchetto di sigarette, quindi è stato mescolato con cura shit e tabacco, badando di non smarrirne neppure una briciola.
Il tutto è stato caricato nel cilum, pressandolo con un nettapipe.
- Chi lo accende? - Ha chiesto allegramente alla fine.
- Lo accende il nostro novizio, ovviamente. - Ha aggiunto Marco, sorridendomi con divertita giovialità. - L'onore è sempre per i debuttanti.
Piero mi ha passato lo strumento, mostrandomi come reggerlo tra le mani durante la fumata. Sonia, con premura materna, mi ha dotato di una telina umida da avvolgere alla base del cono per filtrare il tiraggio.
Mi ha spiegato che serviva a rendere più morbida la boccata del fumo e a non spaccare i polmoni.
Quando sono stato pronto, imbracciando il cilum nel modo giusto, con uno zolfanello lungo ha acceso il contenuto, mentre io ho preso ad aspirare con forza.
Il fumo era acre e bollente, bruciava in gola: - Tienilo più che puoi, se no non ti “fa”. - Consigliava Piero.
Tutti guardavano me e il cilum: sentivo gli occhi lacrimare per il bruciore alle narici, ma non mi andava di mostrarmi imbranato, quindi tiravo con finta disinvoltura.
Poi, quando la quantità aspirata si è fatta incontenibile, ho cacciati fuori il fumo tossendo violentemente.
Ho tirato ancora un paio di boccate, poi ho passato il cilum a Giulio che aspettava il suo turno prima che il giro continuasse per tutti i presenti.
Solo Augusta si è astenuta dal fumare: ci ha rivelato, con un sorriso, di essere incinta da due mesi, quindi per i prossimi sette mesi, avrebbe fatto digiuno di sostanze e di fumo.
Marco l’ha baciata teneramente con infinita dolcezza, erano una coppia così bella che faceva invidia guardarli.
Al termine del giro il cilum è tornato ancora a me, ma ho passato la mano, sentivo di aver fumato con sufficienza.
Le prime note di “Eternal Caravan of Reincarnation” di Santana fluivano in sottofondo, la stanza era colma di fumo, i miei occhi rossi e pesanti osservavano le cose da una distanza infinita, come immerse in una caligine opalescente: iniziai ad avvertire le prime “planate”.
(Continua)
Chez Marco Pt.2
Marco, da perfetto anfitrione e anima della serata, sciorinava curiosi aneddoti del viaggio, a un certo punto ha proposto di fare un po’ di musica: si è assentato per un momento ed è tornato con in mano un magnifico Sitar.
Era la prima volta che ne vedevo uno da vicino: esteticamente era esaltante, gli intarsi e le preziose decorazioni madreperlacee erano stupefacenti.
Giulio non ha resistito alla tentazione gli ha letteralmente strappato di mano lo strumento, eccitato come un bambino ha provato a suonarlo: in postura da “Ravi Shankar” e con la solita invidiabile facilità, dopo aver compreso la disposizione delle note sul manico, è riuscito a cavarne suoni gradevoli all’orecchio.
Marco aveva portato dal viaggio anche un piccolo armonium indiano: una sorta di organetto con tastiera e un mantice posto sul retro che, azionato durante l’esecuzione, ne alimentava il suono.
Senza esitare ha preso a eseguire la melodia suadente di un Rāga.
Piero che con la sua ragazza avevano condiviso quel mitico viaggio, imbracciato il proprio flauto traverso si è messo ad accompagnarlo.
Lui intorno ai trent’ anni, con lineamenti marcati, lunghi e folti capelli corvini, grandi baffi e mosca al mento era un personaggio affascinante:
a guardarlo appariva come un clone di Frank Zappa.
Giulio ha lasciato il sitar a un altro commensale e ha messo mano all’inseparabile chitarra “Ovation”, da un angolo sono comparse delle “tabla” e dei cimbali, per dare supporto ritmico dell’estemporanea jam session.
Inevitabilmente ci siamo trovati a cantare “My Sweet Lord” di Geoge Harrison e "Gange Mai", il brano mistico dal primo album dei Quintessence.
Naturalmente mi sono guardato bene da cercare di suonare alcunché o di cantare: la mia nota mancanza d'intonazione e capacità di produrre qualcosa di udibile con qualsivoglia strumento, mi induceva al silenzio.
Però tamburellavo con le dita sulla tavola per tutto il tempo, seguendo il ritmo di ogni pezzo.
Al termine dell’ improvvisato concerto, siamo passati ad ascoltare brani da due album freschi d’uscita che Marco teneva a farci sentire.
Il primo 33 giri era "The Inner Mounting Flame": il debutto della Mahavishnu Orchestra, con John McLaughlin alla chitarra, Billy Cobham alla batteria e il violino di Jean-Luc Ponty.
Quest’ultimo era un giovane prodigio che avevo visto esibirsi in un concerto dei Curved Air a cui ero stato.
Il secondo album era "Caravanserai" di Carlos Santana, aveva una copertina stupenda: un enorme sole al tramonto, su un deserto nei toni d’azzurro, solcato da una lunga carovana di cammelli.
Marco ha detto che si trattava di un è un disco intensamente spirituale: un viaggio sonoro esotico ed esoterico, un flusso travolgente di musica che si avvicenda senza interruzioni e in cui ogni brano si fonde con il successivo.
Rappresentava il punto di svolta della band, che lasciava i sound latini per approdare al jazz fusion.
L’album, a suo parere, era un vero “trip": quindi andava ascoltato solamente dopo aver acceso un corposo “cilum”.
Alla parola “cilum” hanno iniziato ad aumentarmi le pulsazioni.
Come Giulio aveva anticipato, in questa cena avremmo avuto la nostra iniziazione al fumo dello “shit”
Ovviamente provavo grande curiosità ed eccitazione, ma anche un filo d’ansia.
Fumare hashis era un’esperienza già compiuta da molti nostri amici o compagni di scuola, in genere si parlava di un’esperienza strafiga: uno stato d’alterazione dei sensi che ti apriva a una dimensione sensoriale inesplorata, un viaggio affascinante e inconsueto della mente e del corpo, qualcosa fin di mistico.
Ma si diceva anche di “viaggi andati male”, i così detti “bad trip”:
sballi con malessere fisico e prostrazione mentale che si definivano di “paranoia”, nei quali subivi sensazioni di nausea e in certi casi vomitavi anche il pranzo di due giorno prima.
Per quelli della nostra età che seguivano un’ideale di vita freak, restava una tappa di passaggio obbligato: il ticket per essere considerato uno “giusto", in altre parole “autentico", uno che sceglieva d’essere così per convinzione e non per moda o perché facesse figo.
Segnava un passaggio dalla condizione di adolescente a quella di adulto, un po’ come guidare una macchina o scopare per la prima volta.
Restava comunque l’ansia di un territorio ignoto, l’assunzione di qualcosa che non potevi controllare, l’inquietudine del salto nel vuoto.
Piero si è occupato della preparazione, con una cura rituale che aveva qualcosa di sacro: ha legato i lunghi capelli in una coda di cavallo e messo nei gesti successivi la solennità di chi ripete gesti sedimentati in secoli di tradizione.
La cosa mi è piaciuta, ricordava la cerimonia del tè giapponese, toglieva banalità al fumare lo shit in comune: si percepiva il sapore antico di un mondo lontano dalla nostra cultura occidentale.
Da un astuccio in velluto ha estratto un cilum in avorio intarsiato che doveva possedere una lunga storia: era di forma conica, lungo una trentina di centimetri, con una bocca di carico dal diametro, all’incirca
di una decina.
Da una busta di plastica ha estratto un mattoncino avvolto nella stagnola: lo ha aperto e per la prima volta, ho visto il colore bruno e l’aspetto lucido e pongoso dello Shit.
L’aroma era forte e si è sparso all’intorno, faceva frizzare le narici.
Con la premura di un maestro che inizi all’arte il nuovo discepolo, mi ha spiegato che si trattava di Pakistano nero ”oppiato”.
Mi ha poi spiegato che si definiva così l’hashish che nella lavorazione veniva impastato con una porzione d’oppio.
Pare che per questa particolarità era assai raro da trovare sulle nostre piazze di spaccio e che possedesse proprietà allucinogene, cosa che lo rendeva particolarmente richiesto e prezioso.
Ha preso a sbriciolarne una certa quantità, fino a ottenere un discreto mucchietto.
Sonia, la sua ragazza, ha al contempo sbriciolato mezzo pacchetto di sigarette, quindi è stato mescolato con cura shit e tabacco, badando di non smarrirne neppure una briciola.
Il tutto è stato caricato nel cilum, pressandolo con un nettapipe.
- Chi lo accende? - Ha chiesto allegramente alla fine.
- Lo accende il nostro novizio, ovviamente. - Ha aggiunto Marco, sorridendomi con divertita giovialità. - L'onore è sempre per i debuttanti.
Piero mi ha passato lo strumento, mostrandomi come reggerlo tra le mani durante la fumata. Sonia, con premura materna, mi ha dotato di una telina umida da avvolgere alla base del cono per filtrare il tiraggio.
Mi ha spiegato che serviva a rendere più morbida la boccata del fumo e a non spaccare i polmoni.
Quando sono stato pronto, imbracciando il cilum nel modo giusto, con uno zolfanello lungo ha acceso il contenuto, mentre io ho preso ad aspirare con forza.
Il fumo era acre e bollente, bruciava in gola: - Tienilo più che puoi, se no non ti “fa”. - Consigliava Piero.
Tutti guardavano me e il cilum: sentivo gli occhi lacrimare per il bruciore alle narici, ma non mi andava di mostrarmi imbranato, quindi tiravo con finta disinvoltura.
Poi, quando la quantità aspirata si è fatta incontenibile, ho cacciati fuori il fumo tossendo violentemente.
Ho tirato ancora un paio di boccate, poi ho passato il cilum a Giulio che aspettava il suo turno prima che il giro continuasse per tutti i presenti.
Solo Augusta si è astenuta dal fumare: ci ha rivelato, con un sorriso, di essere incinta da due mesi, quindi per i prossimi sette mesi, avrebbe fatto digiuno di sostanze e di fumo.
Marco l’ha baciata teneramente con infinita dolcezza, erano una coppia così bella che faceva invidia guardarli.
Al termine del giro il cilum è tornato ancora a me, ma ho passato la mano, sentivo di aver fumato con sufficienza.
Le prime note di “Eternal Caravan of Reincarnation” di Santana fluivano in sottofondo, la stanza era colma di fumo, i miei occhi rossi e pesanti osservavano le cose da una distanza infinita, come immerse in una caligine opalescente: iniziai ad avvertire le prime “planate”.
(Continua)