La danza dei gamberi
Posted: Thu Jan 06, 2022 8:52 pm
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Quando eravamo piccoli io e i miei due fratelli avevamo due momenti da aspettare: il Natale e le vacanze estive. A Natale, se tutto andava bene, c’erano dei regali sotto l’albero: io e il mio gemello Mario la notte ci alzavamo a guardare di nascosto, mia sorella Lucia, che aveva un anno di meno, stava sveglia sotto le coperte dicendo a bassa voce: - Se vi vede Babbo Natale scappa con i regali.
Noi Babbo Natale non l’abbiamo mai visto, ma lui forse si, perché per molti Natali non ci fu nulla e Lucia piangeva e ci dava la colpa. Perdemmo presto la fiducia in Babbo Natale: sembrava stesse sempre a contare i nostri sbagli, eppure tutti i bambini che conoscevamo non avevano certo la coscienza da bucato e ricevevano dei regali. Io e mio fratello ci vergognavamo di non aver nessun regalo da far vedere e se incontravamo altri bambini della casa popolare dove abitavamo ci inventavamo una serie di giochi che spesso facevano rimanere gli altri a bocca aperta. Mario esagerava alzando ogni volta il livello, e gli altri bambini lo ascoltavano quasi vergognandosi dei propri doni. Una volta raccontò di avere ricevuto un cane bellissimo di razza pura e costosissimo. Tutti i bambini del vicinato lo volevano vedere, così convincemmo mia madre a mentire dicendo che era scappato per non fare brutta figura. Per rendere più credibile la storia Mario si inventò il nome del cane “Argo” e una ricompensa per chiunque dei bambini avesse riportato il cane. Per settimane orde di bambini scrutavano ogni posto alla ricerca di Argo suonando ad ogni ora alla porta di casa nostra credendo di averlo trovato.
Altra storia era invece l’estate; la decisione era rimessa ai nostri genitori e non ad un imprevedibile vecchio che giocava con le renne. La fine della scuola per noi era un sollievo, solo Lucia era scontenta, lo studio stranamente non le pesava, per questo la sentivamo distante e spesso le nascondevamo i libri. L’estate era però un sollievo per tutti: partivamo in cinque su una centoventisette sgangherata dal color verde pastello sbiadito e mio padre ogni cento chilometri si fermava a controllare i bagagli perché non cadessero. Non ho mai capito perché si dovesse partire carichi come chi fugge e non deve più tornare.
Soldi non ce ne erano dunque niente vacanze in posti lontani, ma a noi pareva comunque vacanza anche il paesino dove erano nati mamma e papà. Il viaggio era un calvario tra finestrini abbassati e rialzati perché nostra madre non voleva prendere un colpo d’aria. Quando ci si fermava Mario e Lucia finivano sempre per litigare, mia madre urlava, mio padre bestemmiava e poi se continuavano li picchiava e poi dava una sberla anche a me.
- Per giustizia una sberla a Mario a Lucia e anche a Giovanni.
Questa forma d’interpretazione della democrazia mi dava il voltastomaco, ma ero piccolo e avevo troppa poca forza per replicare. Ci accorgevamo di essere vicino alla destinazione dalle case basse, dalla gente che finita l’autostrada incontravamo spesso su muli o dal modo in cui i miei genitori scrutavano ogni metro fatto quasi fosse un qualcosa a loro caro.
Prima di arrivare al paese ci fermavamo vicino al solito campo di grano e ci vestivamo con i vestiti buoni che non avevamo messo per non sporcarli. Avevamo la povertà attaccata sotto le suole, ma i miei genitori ci tenevano a far vedere che eravamo ben vestiti e alla moda, che per loro significava i vestiti smessi di qualche conoscente dove la mamma faceva i mestieri, l’importante era che la marca fosse ben in vista da creare un po’ d’invidia.
Quando il cartello di località, Malesio, attestava che eravamo arrivati mia madre si guardava allo specchietto e mio padre faceva le solite raccomandazioni che nessuno di noi ascoltava.
Mio padre avrebbe messo a dura prova anche uno psicologo bravo. Di suo non era cattivo, ma ignorante, orgoglioso e testone, però anche generoso perché i pochi soldi che noi tre avevamo in tasca erano solo grazie a lui. La sua infanzia era stata costruita a calci e sberle dal nonno che sosteneva fortificassero. I suoi pochi amici erano muratori come lui con i quali non si sentiva schiacciato dal fardello del suo non capire. Aveva cominciato a lavorare a undici anni con il nonno nei campi, dopo come muratore al paese e poi a Milano. Ogni anno diceva: -Io smetto questo è un lavoro per asini non per me, ma ogni volta fabbricava una scusa per rimandare.
I soldi parevano trovare nelle sue tasche un abisso dove scomparire: la mamma chiedeva preoccupata dove fossero finiti e allora mio padre li cercava e spesso tutti noi lo aiutavano, ma senza mai successo. Allora mio padre urlava che aveva la “capa malata” dando testate contro il muro e mia madre gli diceva: -Calmo facciamo uguale anche senza.
La verità era che, quando capitava, era una tragedia: si spostava sempre più il confine del sopravvivere e non c’era rimedio o medicina che si poteva prendere in farmacia contro la povertà.
Arrivati però al paese si trasformavano e davanti ai parenti e alla ormai ottantenne nonna, madre del papà, recitavano a braccia il copione della felicità. Non volevano ammettere agli altri il loro fallimento, erano partiti per migliorarsi cosi tutti si aspettavano che fosse e cosi doveva essere. Io e Mario guardavamo i parenti dai vestiti semplici e li canzonavamo visto che per una volta non ci sentivamo inferiori agli altri, anche il loro modo di esprimersi era peggio di quello dei miei genitori che parevano dei cittadini in visita a dei villani . Malesio, che era un fazzoletto di terra con il mare poco distante e la montagna a qualche chilometro, d’inverno diventava un cimitero con anime ancora vive. D’estate però tutto brillava e anche il paesino diventava bello, comunque meglio che starsene a Milano e così potevamo raccontare di essere stati in vacanza.
Quando eravamo piccoli io e i miei due fratelli avevamo due momenti da aspettare: il Natale e le vacanze estive. A Natale, se tutto andava bene, c’erano dei regali sotto l’albero: io e il mio gemello Mario la notte ci alzavamo a guardare di nascosto, mia sorella Lucia, che aveva un anno di meno, stava sveglia sotto le coperte dicendo a bassa voce: - Se vi vede Babbo Natale scappa con i regali.
Noi Babbo Natale non l’abbiamo mai visto, ma lui forse si, perché per molti Natali non ci fu nulla e Lucia piangeva e ci dava la colpa. Perdemmo presto la fiducia in Babbo Natale: sembrava stesse sempre a contare i nostri sbagli, eppure tutti i bambini che conoscevamo non avevano certo la coscienza da bucato e ricevevano dei regali. Io e mio fratello ci vergognavamo di non aver nessun regalo da far vedere e se incontravamo altri bambini della casa popolare dove abitavamo ci inventavamo una serie di giochi che spesso facevano rimanere gli altri a bocca aperta. Mario esagerava alzando ogni volta il livello, e gli altri bambini lo ascoltavano quasi vergognandosi dei propri doni. Una volta raccontò di avere ricevuto un cane bellissimo di razza pura e costosissimo. Tutti i bambini del vicinato lo volevano vedere, così convincemmo mia madre a mentire dicendo che era scappato per non fare brutta figura. Per rendere più credibile la storia Mario si inventò il nome del cane “Argo” e una ricompensa per chiunque dei bambini avesse riportato il cane. Per settimane orde di bambini scrutavano ogni posto alla ricerca di Argo suonando ad ogni ora alla porta di casa nostra credendo di averlo trovato.
Altra storia era invece l’estate; la decisione era rimessa ai nostri genitori e non ad un imprevedibile vecchio che giocava con le renne. La fine della scuola per noi era un sollievo, solo Lucia era scontenta, lo studio stranamente non le pesava, per questo la sentivamo distante e spesso le nascondevamo i libri. L’estate era però un sollievo per tutti: partivamo in cinque su una centoventisette sgangherata dal color verde pastello sbiadito e mio padre ogni cento chilometri si fermava a controllare i bagagli perché non cadessero. Non ho mai capito perché si dovesse partire carichi come chi fugge e non deve più tornare.
Soldi non ce ne erano dunque niente vacanze in posti lontani, ma a noi pareva comunque vacanza anche il paesino dove erano nati mamma e papà. Il viaggio era un calvario tra finestrini abbassati e rialzati perché nostra madre non voleva prendere un colpo d’aria. Quando ci si fermava Mario e Lucia finivano sempre per litigare, mia madre urlava, mio padre bestemmiava e poi se continuavano li picchiava e poi dava una sberla anche a me.
- Per giustizia una sberla a Mario a Lucia e anche a Giovanni.
Questa forma d’interpretazione della democrazia mi dava il voltastomaco, ma ero piccolo e avevo troppa poca forza per replicare. Ci accorgevamo di essere vicino alla destinazione dalle case basse, dalla gente che finita l’autostrada incontravamo spesso su muli o dal modo in cui i miei genitori scrutavano ogni metro fatto quasi fosse un qualcosa a loro caro.
Prima di arrivare al paese ci fermavamo vicino al solito campo di grano e ci vestivamo con i vestiti buoni che non avevamo messo per non sporcarli. Avevamo la povertà attaccata sotto le suole, ma i miei genitori ci tenevano a far vedere che eravamo ben vestiti e alla moda, che per loro significava i vestiti smessi di qualche conoscente dove la mamma faceva i mestieri, l’importante era che la marca fosse ben in vista da creare un po’ d’invidia.
Quando il cartello di località, Malesio, attestava che eravamo arrivati mia madre si guardava allo specchietto e mio padre faceva le solite raccomandazioni che nessuno di noi ascoltava.
Mio padre avrebbe messo a dura prova anche uno psicologo bravo. Di suo non era cattivo, ma ignorante, orgoglioso e testone, però anche generoso perché i pochi soldi che noi tre avevamo in tasca erano solo grazie a lui. La sua infanzia era stata costruita a calci e sberle dal nonno che sosteneva fortificassero. I suoi pochi amici erano muratori come lui con i quali non si sentiva schiacciato dal fardello del suo non capire. Aveva cominciato a lavorare a undici anni con il nonno nei campi, dopo come muratore al paese e poi a Milano. Ogni anno diceva: -Io smetto questo è un lavoro per asini non per me, ma ogni volta fabbricava una scusa per rimandare.
I soldi parevano trovare nelle sue tasche un abisso dove scomparire: la mamma chiedeva preoccupata dove fossero finiti e allora mio padre li cercava e spesso tutti noi lo aiutavano, ma senza mai successo. Allora mio padre urlava che aveva la “capa malata” dando testate contro il muro e mia madre gli diceva: -Calmo facciamo uguale anche senza.
La verità era che, quando capitava, era una tragedia: si spostava sempre più il confine del sopravvivere e non c’era rimedio o medicina che si poteva prendere in farmacia contro la povertà.
Arrivati però al paese si trasformavano e davanti ai parenti e alla ormai ottantenne nonna, madre del papà, recitavano a braccia il copione della felicità. Non volevano ammettere agli altri il loro fallimento, erano partiti per migliorarsi cosi tutti si aspettavano che fosse e cosi doveva essere. Io e Mario guardavamo i parenti dai vestiti semplici e li canzonavamo visto che per una volta non ci sentivamo inferiori agli altri, anche il loro modo di esprimersi era peggio di quello dei miei genitori che parevano dei cittadini in visita a dei villani . Malesio, che era un fazzoletto di terra con il mare poco distante e la montagna a qualche chilometro, d’inverno diventava un cimitero con anime ancora vive. D’estate però tutto brillava e anche il paesino diventava bello, comunque meglio che starsene a Milano e così potevamo raccontare di essere stati in vacanza.