Il seme dell’odio Pt.22

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Il seme dell’odio Pt.22




Torino - De Petris - giugno 1985


La stanza successiva a quella allestita per le messe nere era una camera Conteneva un letto a due piazze, un armadio a due ante munito di specchio, una vecchia coiffeuse per il trucco con una modesta poltroncina, uno scrittoio con tre cassetti e una sedia Tonet.
Sul pavimento, accanto a una porta aperta che mostrava una piccola stanza bagno, si trovava un corpo in avanzato disfacimento.
Il cadavere era irriconoscibile: gonfio e purulento, adagiato una pozza di liquame brunastro dovuto allo stato di decomposizione.
La fase enfisematosa in cui il corpo versava lasciava presagire che la morte fosse avvenuta da più di una decina di giorni.
Le mosche che imperversavano nell’ambiente avevano colonizzato il corpo, la carne esposta era un germinare verminoso di insetti in via  di formazione.
Il gonfiore dei tessuti molli risultava molto evidente al volto: dove si aveva la tumefazione delle palpebre e delle labbra, con l’ingrossamento dei bulbi oculari divenuti sierosi e biancastri, il cadavere nelle parti esposte aveva assunto una disgustosa colorazione brunastra.

Quello che aggiungeva al disgusto della scena una nota di orrore era la condizione terrificante della sua gola: il collo era stato sbranato, come per il morso di una belva.
La carne era stata devastata selvaggiamente da un padiglione auricolare all’altro.
La carotide era scomparsa: una porzione di colonna vertebrale era lasciata a nudo, filamenti di tessuto putrido pendevano ai bordi slabbrati della ferita, un brulicare vivido di piccoli vermi aveva colmato la cavità aperta.
I due agenti restarono pietrificati e sconvolti: quanto avevano temuto fin dall’inizio della ricerca aveva trovato compimento nel più tragico e orrendo dei modi.
Le loro mani corsero in automatico alle armi; quella era la scena di un delitto, era necessario procedere alla perlustrazione del luogo con la massima precauzione.
Senza una parola De Petris fece cenno a Matranca di coprirgli le spalle mentre lui s’innoltrava nell’ultima stanza della casa.
Cautamente con l’arma impugnata a due mani varcò la soglia.
Erano confusi, stupefatti, disgustati e sorpresi, non avevano idea a chi appartenesse quel cadavere, ma di una cosa erano certi, a occhio nudo non poteva trattarsi di Vesna Katić, quello era inequivocabilmente il corpo di un uomo.



Torino - Simone Broglia - giugno 1985


Simone Broglia era incazzato, non amava le levatacce mattutine, solitamente arrivava al suo ufficio verso le dieci del mattino, dopo aver fatto colazione, letto il giornale ed essersi preparato per affrontare una laboriosa giornata.
Dormire fino alle otto era un lusso che poteva permettersi grazie al fatto di essere un valente e agiato professionista all’apice del successo professionale.
Per la rogna che lo indisponeva da giorni si era tirato giù dal letto alle sette del mattino, aveva fatto una rapida doccia, consumato solo un caffè e si era messo in macchina.
Schiacciò nervosamente il tasto dell’alzacristalli della sua Saab 900 Turbo, color argento metallizzato e il fumo della pipa che aveva saturato l’abitacolo defluì lentamente all’esterno della berlina.
Quando era incazzato caricava al massimo, di aromatico Dunhill Nightcap il fornello della sua Peterson Dublin-ebony-killarney, una delle pipe più eleganti della sua collezione e l’accendeva.
Fumare la pipa non serviva a fargli passare il giramento di palle, ma quantomeno glielo rendeva più gradevole e sopportabile.
Si era parcheggiato sul viale che costeggiava la moltitudine degli orti abusivi proliferati nell’adiacenza di Strada del Castello, alla periferia sud della città, con il proposito di fare una visita a Vesna nella sua abitazione.
Lei e la sua amica erano sempre state della buone clienti, lui del resto forniva loro la roba di miglior qualità presente sul mercato, sempre preciso e puntuale nelle consegne, affidabile e discreto come un cronometro svizzero.
Questo perché aveva una mentalità imprenditoriale e un modus operandi che erano sempre improntati alla massima serietà e competenza: qualità indispensabili per avere successo nel campo di ogni attività professionale.
Infatti non si mandava avanti un ufficio con venticinque collaboratori a libro paga e trecento della migliori Partite IVA del nord Italia nel portafoglio clienti, senza possedere queste caratteristiche.
Tutte aziende o liberi professionisti selezionatissimi, appartenenti al mondo industriale e finanziario, mica pizza e fichi.

Men che meno, si teneva in piedi una struttura, segreta e parallela, in veste di fornitore di stupefacenti per la “crème de la crème” dei tossici sabaudi.
Ci voleva capacità e ingegno per divenire il più accreditato spacciatore della Torino bene, servendo una clientela facoltosa e raffinata senza mai scadere di livello e mantenendosi al riparo dalla legge.
Del resto entrambe le sue attività più remunerative si svolgevano in maniera celata: la prima col fornire meccanismi contabili utili per preservare i propri capitali dalla voracità del fisco, attraverso conti off shore; la seconda per rendere più soddisfacente l’esistenza di quei clienti, facendogli spendere congrue parti dei denari occultati per acquistare, sempre da lui, le sostanze che nutrivano i loro vizi segreti.

Essere gentili e disponibili con gli acquirenti era un dovere: con Vesna e Glenda, poi, aveva sempre avuto un riguardo particolare.
C’era il fatto di appartenere alla stessa “setta” e aver condiviso con loro molti dei riti che si erano tenuti, inoltre, la comune conoscenza di Dragan era di per sè una garanzia di affidabilità reciproca.
Ma a tutto c’era un limite oltre al quale la concessione di fiducia e di credito iniziava a diventare un fatto inaccettabile.
Vesna e la sua amica avevano cumulato un debito prossimo ai tre milioni di lire, mica noccioline; lui non aveva fatto storie fino a quel momento per via della comune appartenenza alla consorteria e per rispetto a Dragan, con cui lei aveva una relazione.
Era sempre stata lei quella che teneva la cassa per entrambe e si occupava di pagargli la merce: tutto era filato liscio fino all’estate precedente, poi, dal momento in cui i suoi rapporti con Dragan si erano allentati i pagamenti si erano eclissati.
Lui aveva pazientato, i mesi erano trascorsi con rinvii e promesse di saldare il dovuto, ma era passato quasi un anno in cui le sue forniture erano continuate regolarmente, mentre non si era più vista una lira.

Se il problema fosse sorto con altri clienti l’avrebbe già risolto da tempo. Aveva un metodo collaudato ed efficiente per ottenere le riscossioni, si era dotato di collaboratori che sapevano come convincere i clienti riluttanti a coprire il dovuto.
Con loro due aveva evitato quella soluzione estrema, non perché fosse un sentimentale o uno “morbido” nelle storie di denaro, ma preferiva non creare dissapori con Dragan, cosa da evitare per quanto possibile.
Così aveva deciso di affrontare personalmente la questione di buon mattino: erano giorni che attendeva la donna senza esito, avrebbe dovuto farsi viva per ritirare la roba che aveva chiesto e saldargli parte del debito,  però come al solito gli aveva dato buca.
Ora ne aveva piene le scatole di quel fare elusivo, Vesna aveva tirato troppo la corda; del resto tra quello che gli passava Dragan e ciò che guadagnava come puttana di lusso, di certo i soldi non gli mancavano. Quindi che li sborsasse, perché la sua pazienza era finita: le avrebbe portato la roba e avrebbe preteso quello che gli spettava.
Non se ne sarebbe andato da lì a mani vuote, questo era poco, ma sicuro.
Scese dall’auto e si diresse verso il sentiero che conduceva alla vecchia casa oltre il torrente, già gli giravano le palle al pensiero di cosa avrebbero subito le sue Tricker's Derby, nere e impeccabilmente lucide, in mezzo a quel terreno pieno di polvere, pietre e chissà che atre merdate.

(Continua)
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