Il seme dell’odio Pt.21

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Il seme dell’odio Pt.21



Torino - Vesna - giugno 1985


Sicuramente il bambino si era nascosto nel bagno, una scelta stupida per sfuggire la punizione che sapeva di meritare, quel vano era piccolo e praticamente vuoto, non vi erano anfratti in cui nascondersi, la finestra era inchiodata, non aveva vie di fuga.
La luce era andata via, forse un guasto nell’impianto o un’interruzione nella linea elettrica: il buio era denso come pece, la sensazione di malessere che l’aveva assalita dal momento in cui era rientrata a casa stava aumentando di momento in momento.
Si spostava a piccoli passi tornando alla porta della stanza, muoversi le costava grande fatica, sudori freddi le scorrevano sul corpo, procedeva a senso poiché era impossibile avere riferimenti di dove si trovasse.
Il buio pareva possedere materia fisica, come una melassa vischiosa che rallentava i movimenti, tendeva le mani in avanti per timore d' incontrare qualche ostacolo.
Il tempo stesso aveva perso la sua dimensione, erano trascorsi brevi istanti da che aveva iniziato a muoversi, ma le sembrava un percorso di ore, benché avesse fatto unicamente qualche passo.

Poi iniziò a sentire il freddo. Troppo freddo per la stagione e per la casa, pensò fosse un’impressione psicologica dovuta al malessere, forse solo un calo improvviso di pressione.
Respirò a fondo, per respingere la vertigine, le venne in mente l’esercizio di respirazione a “mantice”: quello che aveva appreso da Dragan nelle tecniche di meditazione trascendentale.
Con quel ritmo di respiro avrebbe accelerato il metabolismo, la circolazione sanguigna aumentando le avrebbe scaldato il corpo.
Prese a respirare veloce, ma il gelo pareva solo aumentare, stava battendo i denti.

Sentì le mani incontrare il legno dello stipite della porta, si trovava sulla soglia della propria camera, l’attraversò e svoltò alla sua sinistra: avrebbe dovuto trovare la porta del bagno lì di fronte, a pochi passi.
D’improvviso percepì una variazione nel tono di quelle tenebre, il formarsi di una forma rettangolare, sospesa nello spazio a un metro da lei.
La figura che cercava di mettere a fuoco era di una gradazione di nero più chiara, pensò a uno scherzo della vista dovuto al prolungarsi di quella sorta di cecità forzata.
La forma diveniva lentamente più luminosa e distinta, comprese che il rettangolo che stava osservando altro non fosse che il vetro smerigliato della porta del bagno che aveva davanti.
La luminosità opalina virava sul verdognolo, come se all’interno dell’angusto locale qualcuno avesse acceso una piccola lucina, o una debole torcia elettrica.
Vesna era sconvolta da quel fenomeno, chi mai avrebbe potuto dare al bambino qualcosa di simile per generare quella luce?
Il gelo le irrigidiva le membra, respirava a fatica, scintille luminose esplodevano ai margini del campo visivo, si sentiva prossima a svenire.
La porta, senza alcun rumore, iniziò ad aprirsi.
Pareva sospesa nel vuoto, scivolare lentamente su un piano inconsistente, quando fu spalancata l’interno dello stanzino apparve come una profonda gola nera: il bambino stava al centro della stanza, il suo corpo era immerso in quel bagliore soffuso e verdastro.
Vesna era in preda a un orgasmo di vivo terrore, era certa che la porta si fosse aperta da sola, non era possibile, il bambino era distante due metri da essa e non poteva averla toccata: tutto questo era diabolico, lo staffile le casco di mano, le gambe erano scosse dal tremito,

Il bambino sembrava dormire in piedi, aveva gli occhi chiusi e mostrava uno stato di totale assenza, la luce intorno al suo corpo iniziò a scemare lentamente, sfumava come un pila in esaurimento.
Prima che tornasse il buio, Vesna lo vide aprire gli occhi e fissarla con quelle iridi bianche e le pupille da rettile, dischiuse le labbra in un macabro sorriso: il denti acuminati come lame brillarono nel buio.
Lei cercò di gridare, ma dalla gola le usci solo un sibilo acuto come un fischio, gli parve di udire uno scatto metallico, ovattato e lontano, poi il buio le colmò la mente, accasciandosi esanime al pavimento.



Torino - De Petris - giugno 1985


De Petris e l’agente Matranca armati delle torce elettriche di dotazione si fecero forza e varcarono nuovamente la soglia della vecchia casa.
L’aria all’interno era pestilenziale, li costringeva a uno sforzo disumano per combattere la nausea e lo stimolo al vomito.
Le luci delle lampade rivelavano un ambiente sudicio e disadorno, sul tavolato del pavimento, insieme alla polvere sedimentata da mesi, si trovavano escrementi di ratto e cadaveri delle bestie, privi di capo, in stato di decomposizione.
Matranca individuò l’interruttore della luce e l’accese: una tenue luminescenza rossa si diffuse da una spoglia lampadina inattinica che pendeva dal soffitto.
I due uomini restarono esterrefatti: il nero era il colore delle pareti e del soffitto, a una spanna da questo si estendevano, in una sorta di motivo decorativo continuo, scritte in alfabeto runico, segni cabalistici e blasfeme glorificazioni sataniche.

Da quella che appariva come la cucina dell’abitazione entrarono nella stanza successiva: le mosche incontrate all’entrata persistevano fastidiose, il loro ronzio molesto rompeva il silenzio della casa.
La stanza era vasta e inquietante: un cerchio di sale del diametro di circa tre metri ne occupava il centro, lungo il suo perimetro interno comparivano scritte in ebraico antico e simboli esoterici, un grande pentacolo con la punta rovesciata verso il basso era posto al suo centro, su ogni punta presenziava una candela nera consumata oltre la metà. Oltre il cerchio, sulla prete di fondo, era infissa una grande croce in legno rovesciata, nello spazio tra la sua parte terminale e la base del pavimento era apposto, in colore rosso, il simbolo del Sigillo di Lucifero.
La stanza appariva sinistra e ciò che conteneva suscitava un’ansia primordiale, i due si guardarono attoniti, Matranca parlò per primo:
- Cristo! De Pè, ma dove cazzo siamo finiti? - La voce aveva un’inflessione da campana incrinata, nel parlare si fece un rapido segno di croce.
- Zitto Matrà, avevo visto queste cose solo al cinema. Questa qua, scomparsa o no è fuori di testa, da internare in ogni caso.
- Io non ne capisco, ma questa roba mi sa quelle sette di malati di mente.
- Sì, Matrà, non c’è da sbagliarsi, questa o questi si sono dati al satanismo. Non se ne trovano molti in giro, ma esistono eccome!
La scena li aveva destabilizzati, dopo tutto quel cercare, l’ultima cosa che si sarebbero aspettati era di finire in una specie di tempio satanico.
- Vediamo il resto della casa e togliamoci da qui - disse De Petris - Questa puzza insopportabile e ‘ste mosche, indicano ci sia la carogna di un animale. - poi aggiunse: - Se non di peggio.
Aprirono la porta della stanza successiva.



Giorgio Turvani - Torino - 4 marzo 2010

La solitudine della sua esistenza era compensata dal prendersi cura di sé. Coltivava le abitudini con amorevole attenzione, del resto se non fosse stato lui a volersi bene e trattarsi con affetto, chi cazzo d’altri l’avrebbe ancora fatto?

La fretta per gli impegni non gli impedì di compiere il rito di conforto giornaliero: farsi un caffè degno di un sovrano, prese la moka per prepararselo.
Il caffè gli piaceva molto carico: aveva colmato il filtro oltre il limite, pressando un poco il la polvere profumata e sottile.
Si reputava un intenditore di caffè, ce n’erano di due tipi: quello di miscela Arabica, più delicato, dolce e aromatico che conteneva meno caffeina, mentre il caffè Robusta, di qualità pregiata, aveva un sapore più intenso, conteneva più caffeina e risultava maggiormente corposo nel gusto.
Lui preferiva quest’ultimo che gli dava un espresso più cremoso e schiumato.
Lo acquistava sfuso in una torrefazione due isolati dietro casa, nulla a che vedere con il caffè confezionato nella plastica che trovavi nei supermercati.
Mise la moka sul fornello e controllò con un rapido inventario il contenuto della borsa da fotografo che si sarebbe portato dietro, con quanto gli occorreva quella mattina.


(Continua)
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