Il seme dell’odio Pt.15

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Il seme dell’odio Pt.15




Vesna - Torino - fine maggio 1985


Vesna era furente: fin dal primo anno di vita la natura abietta di quell’essere era stata evidente: non vi era nulla di umano in lui.
Oltre l’aspetto inquietante aveva nello sguardo la fredda fissità di un rettile: guardare in quegli occhi senza iride era simile a sprofondare in un abisso buio che ti rubava la forza vitale.
Ti sentivi trascinare al fondo di un cosmo oscuro, di precipitare negli antri infernali da cui era venuto.
Da subito, aveva compresa l’impossibilità di stabilire un contatto, una minima empatia con una creatura più simile a una entità aliena che a un essere umano: lei aveva desiderato assolutamente di disfarsene.
Abbandonarlo davanti alla porta di una chiesa, o a quella del Cottolengo*, dove si prendevano cura di quegli scherzi di natura.
Lasciarlo ovunque potessero accoglierlo, purché lontano dai suoi occhi e dalla sua vita.

Ma Dragan si era opposto con fermezza: lo riteneva un dono prezioso del demonio e impose di tenerlo.
Rimediò quella casa appartata dove farli vivere, commissionò i lavori per renderla abitabile, mantenendo un’apparenza di un luogo abbandonato al suo esterno, onde tenere alla larga possibili curiosi.
Oltre a farne la l’abitazione per lei e il bambino, la rese sede della sua ristretta setta di adoratori satanici.
Riteneva, entusiasta, che il piccolo fosse una grazia concessa dal Signore degli inferi, un segno onorifico, affinché fosse impiegato nei rituali tenuti della congregazione: infatti Vesna e il bimbo erano divenuti parte integrante di quel culto blasfemo.

La furia rabbiosa che la pervadeva era la solo cosa che la teneva in piedi: già sulla via di casa si sentiva stanca e sfinita, ma dal momento che vi aveva messo piede la sensazione di malessere era cresciuta.
Le pareva che ogni energia fosse defluita dal suo corpo svuotandola di ogni forza e intento, i gesti e il solo procedere le pesavano una fatica enorme.
Si muoveva lenta come un automa, tutto all’intorno pareva ondeggiare come su una piccola imbarcazione in preda ai flutti: aveva difficoltà a tenere gli occhi aperti, le palpebre le bruciavano e la visione era offuscata come nel fumo di un incendio.
Facendo violenza alla sua condizione fisica, si era imposta di punire subito quel piccolo animale in sembianze umane: prese lo staffile che era solita usare per attuare il suo proposito e si diresse alla stanza.
Nella camera che olezzava quanto un porcilaia, il pagliericcio del piccolo era insolitamente vuoto.
Ne fu sorpresa, perché solitamente al suo rientro lo trovava immerso nel suo sonno comatoso: di rado si spostava dal suo giaciglio, anche perché lei, in sua assenza, glielo aveva proibito.

Di certo non era uscito dall’abitazione, era incapace di gesti autonomi, inoltre la porta era chiusa a chiave e solo lei l’aveva aperta rientrando.
I luoghi dove nascondersi nella casa non erano molti: presagendo la punizione, il piccolo si era di sicuro intanato nello stanzino da bagno adiacente la sua stanza da letto.
Infastidita da quell’ulteriore imprevisto che faceva aumentare il senso di malessere che la opprimeva, fece per tornare sui suoi passi in direzione dell’angusto bagno.
In quell’istante la luce si spense e la casa piombò in un silenzio tenebroso.

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* La Piccola casa della Divina Provvidenza, conosciuta anche con il nome di Cottolengo dal nome del suo fondatore san Giuseppe Benedetto Cottolengo, è un istituto di carità con sede principale nel quartiere Aurora a Torino. Storicamente, l'Istituto divenne ben presto nella sintesi popolare il ricovero dei cosiddetti "mostri", di coloro cioè cui la sorte o la malattia avevano oltraggiato con deformità il corpo o i lineamenti, coloro che la società respingeva perché imbarazzanti o esteticamente sgradevoli.
Gli operatori, intendevano proteggere gli infelici ospiti della struttura dalla cattiveria della superficialità esterna: evitando che il contatto possa tradursi in nuove, ulteriori sofferenze per gli interessati.




Torino - De Petris - maggio 1980

Ogni ricerca del bimbo scomparso fu vana: il piccolo non venne mai ritrovato.
Se il fiume se l’era preso, non lo restituì più.
Furono inutili le ricerche delle squadre del Nucleo Sommozzatori dei Vigili del Fuoco e del Servizio della Protezione Civile: il Po venne setacciato palmo a palmo per diversi chilometri a valle; si estese l’allarme a tutte le ragioni attraversate dal fiume, perché vegliassero sui loro argini o qualcuno segnalasse un avvistamento.
Ma anche i luoghi consueti di certe anse del fiume, tristemente noti per essere punti in cui la corrente restituiva i corpi di annegati incidentali, restarono desolatamente vuoti.
Dopo oltre un mese di ricerche infruttuose, la macchina della Protezione Civile dovette desistere.
In quel mentre si effettuarono concitate ricerche anche sul territorio cittadino, non dando per scontata la sola ipotesi dell’annegamento.
Lo stesso De Petris partecipò attivamente a le indagini in quella direzione:
l’intero quartiere sito del parco fu perlustrato, sperando che qualcuno, casualmente, avesse visto quel giorno un bambino aggirarsi, da solo o accompagnato, con un palloncino a forma di coniglio legato al polso.
Il tempo scorreva nella sua inutilità di risultati, tutto rendeva sempre più attendibile l’ipotesi dell’incidente e dell’annegamento.
Una leggenda metropolitana voleva che fosse tradizione dei nomadi, il rapire bambini e condurli chissà dove, per costringerli alla richiesta di elemosina in strada.
De Petris non aveva mai creduto a quella malevola fantasia popolare, non di meno fu il suo stesso comandante di sezione a volere un sopralluogo al campo Rom della città.
Fu in quella occasione che De Petris conobbe Yanko Sejdici: il “krisnìtori” dei nomadi. Il sopraluogo non portò ad alcun che, ma lui ricordava ancora le parole del “krisnìtori”: “Voi "gagè” in divisa o in borghese, venite a cercare qui i vostri figli quando scompaiono, pensando che ve li abbiamo rapiti. Ma quando sono i nostri figli a scomparire, nessuno di voi ci perde il sonno. Negli ultimi sei mesi sono scomparsi tre dei nostri bambini: abbiamo denunciato la cosa, ma ci hanno quasi riso in faccia. Chi crede che i figli degli zingari possano Essere rapiti? Nessuno! Al più può trattarsi di un furto tra clan rivali. Per voi i nostri figli non contano nulla, siamo solo merda che sporca le vostre strade eleganti.” Era serio e aveva negli occhi la tristezza rassegnata di chi ha rinunciato a sperare.

La stessa tristezza muta che De Petris leggeva negli occhi della moglie, a ogni suo ritorno a casa, a mani vuote.
La ragazza piena di vita, aveva perso la voce, le sue parole e le sue azioni quotidiane avevano smesso di colorare all’aria che le stava intorno, il grigiore dei suoi pensieri aveva spento la luce della vita sul suo corpo e su ciò che la circondava.
Giorno dopo giorno, mentre la speranza si affievoliva, si era spenta, consumata come il lume di candela che ha bruciato il suo stoppino.
Lui soffriva quei silenzi, il suo senso di colpa avrebbe preferito che l’ira di lei per quella grave disattenzione lo travolgesse con la violenza di una diga che frana.
Aver perso il figlio e non avere una tomba dove piangerlo, restare inchiodati senza una certezza sulla sua fine per il resto dell’esistenza, era qualcosa di lacerante e disumano.
Avrebbe voluto sentirla urlare che era stato un folle idiota, in incapace, un padre indegno, un criminale irresponsabile e infanticida: tutto ma non quel silenzio che rendeva gelida la loro casa, che trasformava in statue di ghiaccio le loro vite bloccate.

Mai l’aveva sentita pronunciare un accusa, dargli la colpa di quel dramma nato dall’insulsaggine di quel gioco tragicamente insidioso a cui si era prestato col bambino.
Solo una volta l’aveva sentita dire: “I bambini piccoli non si lasciano soli. Mai.” Ma l’aveva bisbigliato, come se parlasse a sé stessa.

(Continua)
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