Il seme dell’odio Pt.13

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Il seme dell’odio Pt.13



Torino - Vlade Krasic - 1970/80

Era necessario limitare lo spazio tra prelievo e impianto dell’organo stesso: sulla tempestività dell’intera operazione si giocava il successo dell’intervento, perché l’ utilizzo dell’organo prelevato e da trapiantare necessitava di tempi stretti.
Infatti il trasporto dell’organo doveva avvenire entro un limite temporale marcato.

Il tempo e le modalità di trasporto che intercorrevano tra prelievo e consegna dell’organo era complesso e cruciale.
Era indispensabile effettuarne il trasporto in condizioni ottimali, senza danni ai tessuti o di altra natura, inoltre, che esso venisse raffreddato, abbassandone la temperatura di molti gradi sotto lo zero, mantenendolo in immersione in una particolare soluzione fisiologica, all’ interno di un supporto isotermico e sterile.
La soluzione al complicato problema logistico era di stabilire una linea diretta tra donatore e ricevente, che consentisse di programmare l’intervento con certezza, senza affidarsi, come avveniva di consueto negli altri Centri Trapianti nel mondo, all’ incertezza del caso.

Non si poteva chiedere a un magnate del petrolio arabo o texano, con un patrimonio che corrispondeva a qualche punto di PIL nazionale, che il trapianto di un organo vitale per sé, o un proprio famigliare, fosse affidato 
all’ imprevisto disegno del fato.
Attendere che in qualche parte del mondo un pedone distratto e un autista ubriaco, si incontrassero in una strada nello stesso momento e che il primo venisse accidentalmente ucciso dalla negligenza criminale dell’altro, per sperare di ottenere un organo disponibile, era qualcosa d' inspiegabile per chi poteva acquistare ciò che voleva con i propri denari.
Augurandosi inoltre che il “fortunato” evento, nell’ insieme delle circostanze, consentisse che ognuna delle utili variabili di contorno giungessero a buon fine.
Dare a coloro che se lo potevano permettere la certezza di ottenere l’intervento che gli avrebbe salvato la vita, con una data prestabilita e la disponibilità certa dell’organo necessitante, sarebbe stata un’ opportunità che non aveva prezzo.
O meglio ne avrebbe avuto uno, enormemente alto, solvibile per contanti, nell’ efficiente e anonima struttura della sua clinica.



Torino - De Petris - maggio 1980


Era un giorno feriale, il parco era per lo più deserto, qualche mamma o nonna a passeggio con i piccoli nelle carrozzine, godevano del soave clima primaverile.
Tranquilli pensionati leggevano il giornale sulle panchine scaldate dal sole, coppie d' innamorati ridevano allegre delle loro scherzose facezie, poi cercavano angoli solitari per baciarsi.

L’accesso al Borgo medievale era gratuito, per la Rocca e i suoi giardini interni bisognava acquistare un biglietto: De Petris e il bambino non erano interessati a visitare il castello, si limitavano al piccolo Borgo per il loro gioco.
Il luogo ti trasportava nella dimensione epica di dame e cavalieri medievali, la fedele riproduzione degli ambienti era affascinante per grandi e piccini: anche De Petris ci veniva con suo padre da piccolo.
Varcata la “Torre-porta di Oglianico” col ponte levatoio che si stendeva fu un fossato decorativo profondo meno di un metro, trovavi le abitazioni affacciate sulla via Maestra: affreschi vivacemente colorati e decori in terracotta, appartenenti alla tradizione subalpina, ne adornavano le facciate.
Sotto i portici si aprivano le antiche botteghe di artigiani e commercianti,
allestite con arredi e attrezzi dell’epoca, ora dedicate all’ offerta di souvenir
decorativi.

Lo spazio era assai circoscritto, si limitava ad alcune corte vie che dividevano piazzette ed edifici, alle quali si accedeva attraverso varchi sormontati da archi.
Il luogo era ristretto e sicuro quanto il giardino di un asilo; non presentava sporgenze pericolose per un bambino e non vi era accesso di automezzi.
Le possibilità di nascondersi si contavano sulle dita di una mano: le grosse colonne dei porticati, i muretti delle fontane, il vestibolo di un portone, i parapetti in muratura che accompagnavano le scalinate esterne degli edifici.
Solo due vie comunicavano con l’esterno, la prima all’ entrata con ponte levatoio, la seconda al termine dalla via maestra del borgo.
Questa seconda uscita, posta dopo la sede di un rinomato ristorante, proseguiva nel parco costeggiando il Po fino al ponte Isabella, sul quale confluiva il corso Dante.
Il bambino aveva il divieto assoluto di spingersi fuori dal borgo per quella via d’ uscita: in questo, da vero ometto giudizioso e obbediente, rispettava la direttiva e non l’ aveva mai trasgredita.

Trovare quel diavoletto all’ interno del minuscolo borgo era cosa facile quanto cercarlo nella loro casa di settanta metri quadri: l’avrebbe scovato, come al solito, in pochi minuti.
Il loro gioco aveva una fine scontata, ma il divertimento del bimbo nel farlo restava invariato.
C’era inoltre in quel pomeriggio un particolare che avrebbe reso la ricerca più rapida del solito: nello spiazzo davanti alla struttura stazionava il banchetto del venditore di palloncini.
Il bimbo ne aveva chiesto uno con la sagoma di un simpatico coniglio.
Era uno di quei nuovi palloncini con la plastica spessa e specchiante, dove l’immagine del soggetto veniva stampata con una colorata serigrafia.
Per non perderlo il piccolo si era fatto annodare il palloncino al polso, il quale, nel correre, lo seguiva a un metro dalla sua testa, rendendolo fiero come se portasse uno stendardo nobiliare.
De Petris, non volle mettere malizia al figlio, ma era palese che ovunque si fosse nascosto, quel grosso palloncino sarebbe spuntato segnaletico come una boa, rivelando il nascondiglio del suo conduttore
Il padre sorrideva di una amorevole divertimento per l’ingenuità e il candore che ancora albergavano nel proprio piccolo rampollo.
Così iniziò a percorre gli spazi del Borgo, verificò i pertugi e le possibili parti dell’architettura esterna già impiegati in giochi precedenti, compì un giro intorno alle fontane delle diverse piazzette, le rientranze dei portoni sbarrati, le rampe esterne alle case con i parapetti in muratura, dove avrebbe potuto accucciasi; butto uno sguardo veloce 
all’ interno delle botteghe artigiane e la garitta del corpo di guardia.
Ripeté la ricerca diverse volte, ma non trovò traccia del bimbo, né del palloncino.
Gli venne l’ idea che per canzonarlo il piccolo furfante fosse sgattaiolato, non visto, alle sue spalle, andando ad attenderlo all’ esterno, mentre lui lo cercava inutilmente.
Rise tra sé: poteva essere andata proprio così. Considerò con malcelata soddisfazione paterna, che il pupo iniziava a farsi scaltro.

Rapidamente tornò sui suoi passi, sul piazzale esterno si guardò intorno: del bambino non vi era traccia.
Il venditore di palloncini era al suo posto, De Petris gli chiese se avesse visto uscire un bimbo da solo, rammentandogli che poco prima gli aveva venduto il palloncino a foggia di coniglio.
L’ uomo confermò che ricordava bene il piccolo, ma che fino a quel momento, dal portale non era uscito alcun bambino.
De Petris iniziò a percepire un leggero disagio per quella variazione di programma alla consuetudine del gioco, non era ansia, ma si chiese dove diavolo si fosse nascosta la piccola peste.
Imponendosi la calma riattraversò le assi del ponte levatoio; sempre con calma e metodo, riprese a ispezionare ogni possibile anfratto.
Non ebbe maggior fortuna: il bambino non si trovava.
Prese a chiamarlo a gran voce, non vi erano altri visitatori nella struttura: gli rispose solo l’eco rilanciato dalle mura.
L’ ansia lo morse come un cane rabbioso: il sangue prese a pulsargli alle tempie: pensò alla possibilità di un incidente.
C’era un pozzo nel Borgo: un reperto originale del XV secolo situato nel “cortile di Avigliana”, un manufatto del 1400.
Magari, preso dal gioco, il bimbo, ignaro del il pericolo, vi si era introdotto.
Corse al pozzo. Nel guardare al suo interno provò sollievo: era solo decorativo, la sua profondità non arrivava al metro.
In ogni caso era desolatamente vuoto.

(Continua)
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