Il seme dell’odio Pt. 9
Posted: Sun Aug 01, 2021 9:35 pm
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Il seme dell’odio Pt. 9
Vesna - maggio 1978 - Torino
Dragan e i suoi studi di medicina, presto si sarebbe laureato: avrebbe fatto il chirurgo nella lussuosa clinica di suo padre, sulla collina torinese.
Dragan il suo cinismo, la sua indifferenza fredda come la bianca roccia delle case, nel luogo lontano in cui era nata.
Lui che univa ai suoi studi da medico la passione per la negromanzia, per l’occulto, un interesse coltivato fin dalla prima gioventù.
Il loro incontro era stato casuale, in una sera piovosa di fine febbraio col freddo che intorpidiva le gambe, appena coperte da una gonnella che si fermava a quattro dita dalle mutandine.
Era la terza serata di maltempo, con quel clima infame i clienti erano restii a uscire di casa, quella sera non si era ancora fermato nessuno: rare auto sfilavano rapide lungo il viale, non rallentavano neppure per lanciare un’ occhiata distratta.
Le voglie degli uomini restavano sopite sotto quella pioggia sottile e insistente, l’asfalto stradale, lucido e nero, come uno specchio che rifletta il torpore pigro della notte.
Vesna, infreddolita, stanca e depressa, per una nuova serata d’ inutile lavoro, per il freddo, spostava di continuo la presa del piccolo ombrello da una mano all’altra, rifugiando la mano liberata nella tasca del corto giubbettino.
L’umidità della notte condensava in vapore niveo i suoi respiri, era trascorsa l’una e meditava di rinunciare a fermarsi oltre; ancora una decina di minuti e si sarebbe avviata al ritorno: voleva un latte caldo e un letto asciutto.
Quel mestiere era infame. Non era vero che per necessità ci si abituasse a tutto. Né lei, né Gledia si sarebbero mai abituate a quella vergogna.
Non ci si abitua a divenire carne in vendita esposta su una strada, piene di disprezzo per sé, di pensieri rovinosi e nausea che non ti abbandonano.
Misurare con i passi e il tempo della propria umiliazione, lungo quel metro di marciapiede, nelle attese tra un cliente e il prossimo, venuto a comprarti.
Il bisogno era angoscia, paura e disperazione, l’ultimo gradino di una voragine di degrado che ti inghiottiva un giorno dopo l’altro. La necessità era un obbligo lacerante, la si subiva come una malattia, non c’ era abitudine alla miseria.
Gledia, non scendeva in strada da dieci giorni, era ammalata: il freddo e l’umidità della notte le avevano infiammato polmoni, la febbre non l’abbandonava neppure con gli antibiotici, procurati attraverso un farmacista che, per soldi, forniva metadone e altro senza ricetta medica, a tossici e irregolari.
Erano delle clandestine, non potevano avere un medico e l’assistenza sanitaria, non potevano bussare a un ospedale per il timore di essere segnalate ed espulse dal paese.
Si sentiva spersa senza Gledia, tra loro si spalleggiavano e proteggevano: quando una saliva su un auto sconosciuta, l’altra ne rilevava la targa.
Nel caso non fosse tornata in un tempo utile, avrebbe, da una cabina pubblica, fatto una telefonata anonima alla polizia, indicando: ora, targa, modello e il colore del mezzo.
Da sola in strada, viveva col batticuore a ogni nuovo incontro.
Era snervante, salire auto con degli sconosciuti mascherando la paura nell’appartarsi al buio, in una via di capannoni industriali.
In quel mestiere imparavi a simulare: mostrare indifferenza al ruvido consumo di quei coiti, al disgusto che toglieva il respiro, per quei fiati e l’ igiene sommaria di certi corpi.
I fari di un auto, rallentando, l’avevano investita di un bagliore giallo: proiettando sul marciapiede la sua ombra distorta.
Una Porsche 911, nera, si era fermata davanti a lei.
La macchina, lucida di pioggia, brillava di lacrime cangianti alla luce dei lampioni, il motore, girando al minimo, emetteva il brontolio soffuso e potente, di un grosso felino acquattato.
Il vetro, sul lato passeggero, prese a scorrere verso il basso: l’uomo all’interno dell’ abitacolo restava in ombra, la brace della sua sigaretta era un punto vivo nel buio, una folata di fumo sfuggì dal varco del finestrino.Restò in silenzio, Vesna capì che stava valutando la merce esposta.
Si mosse lateralmente e aprì con uno scatto metallico la portiera: la luce dell’abitacolo illuminò un volto di giovane uomo dalle fattezze regolari e l’aria distaccata.
Non seguirono parole: il gesto era stato esplicito, Vesna, chiuse il piccolo ombrello e montò in macchina.
Torino - Giugno 1985
De Petris, si sentiva stanco, scoraggiato e nervoso.
Avesse avuto il vizio del fumo come Matranga, avrebbe almeno avuto il placebo di un’asticella di carta e tabacco come distrazione.
Era cresciuto in una famiglia di convinti ecologisti: non aveva mai acceso una sigaretta in vita sua, neppure quando al liceo, tutti i suoi amici si stonavano di canne e lo prendevano per il culo, dandogli dello sfigato.
Lo canzonava in maniera bonaria e affettuosa anche lei all’ inizio, quando si erano messi insieme al secondo anno del liceo.
Marzia era totalmente diversa da lui: c’ era del vero nella storia che, talvolta, gli opposti si attraggono.
Lui taciturno, riservato, quasi timido, restio ad apparire, sempre attento nel meditare le sue scelte.
Lei estroversa, istintiva, solare, vitale. Vivace come una cinciallegra, della quale possedeva la grazia leggiadra, la musicale loquacità e la tenacia.
Marzia, innamorata della vita, dotata di un instancabile dinamismo, unito alla voglia di conoscere tutto ciò che ritenesse utile alla sua crescita interiore.
Era una creatura dell’ aria, degli spazi, delle nuvole e del cielo, che solcava dispiegando le ali della curiosità, della fantasia e della gioia di vivere di cui, la natura, le aveva fatto dono.
Per qualcosa di incredibile e miracoloso, aveva posato lo sguardo su questo goffo animale terrestre, capace di volare quanto una tartaruga.
La cinciallegra si era innamorata di lui, della testuggine, che l’ aveva accolta come un dono, amandola più dalla propria vita.
Con lei aveva scoperto di possedere ali e capacità di seguirla in volo.
Avevano trascorso insieme anni di felicità, dal liceo agli studi universitari: lei in Lettere e Filosofia, lui in Giurisprudenza.
Si erano sposati freschi di laurea: lei attendeva un figlio che entrambi desideravano.
Per sbarcare il lunario: lei dava ripetizioni agli studenti, lui ebbe l’occasione di un concorso per entrare in Polizia, benché la paga fosse esigua, era un lavoro continuativo; col tempo avrebbe cercato qualcosa di meglio da fare, le occasioni non sarebbero mancate.
I loro genitori li aiutavano pagando loro l’affitto di casa: avevano trovato un piccolo alloggio, al primo piano di un edificio sul corso Vittorio Emanuele II, nel tratto tra il carcere de “Le Nuove” e la piazza Rivoli.
Il futuro e la vita apparivano benigne: il loro bimbo cresceva bene, loro si amavano, tutto scorreva nell’argine di una serena, continua, felicità.
Come respirare in un ridente mattino di primavera, senza ombre e profumato di fiori nuovi.
De Petris, guardava il cielo: lo splendore azzurro di una giornata di piena estate, faceva quasi male agli occhi per quanto era luminosa, non una sola nuvola a turbarne la nitida estensione.
C’ era un punto in cui le fronde degli alberi si dividevano, lasciando aperto uno scorcio d’ orizzonte: le cime alpine apparivano di un blu cobalto, sormontate di una pennellata candida, lo skyline torinese, regalo delle giornate di bel tempo.
Poteva elencare a mente i nomi di quasi tutte quelle montagne: dal Monviso, all’ Albergian, al Rocciamelone.
I suoi non amavano solo le foreste, ma anche le escursioni montane:effettuate con micidiali partenze all’alba, pure d’inverno.
A volte, quella estrema differenza di gusti verso la natura, gli aveva solleticato il dubbio di non essere realmente un loro figlio, ma che lo avessero adottato. Questo avrebbe spiegato quella discrepanza genetica e il suo rifiuto per tutto ciò che faceva: campeggio, escursioni in luoghi impervi, trekking, bestie e naturismo in genere.
(Continua)
Il seme dell’odio Pt. 9
Vesna - maggio 1978 - Torino
Dragan e i suoi studi di medicina, presto si sarebbe laureato: avrebbe fatto il chirurgo nella lussuosa clinica di suo padre, sulla collina torinese.
Dragan il suo cinismo, la sua indifferenza fredda come la bianca roccia delle case, nel luogo lontano in cui era nata.
Lui che univa ai suoi studi da medico la passione per la negromanzia, per l’occulto, un interesse coltivato fin dalla prima gioventù.
Il loro incontro era stato casuale, in una sera piovosa di fine febbraio col freddo che intorpidiva le gambe, appena coperte da una gonnella che si fermava a quattro dita dalle mutandine.
Era la terza serata di maltempo, con quel clima infame i clienti erano restii a uscire di casa, quella sera non si era ancora fermato nessuno: rare auto sfilavano rapide lungo il viale, non rallentavano neppure per lanciare un’ occhiata distratta.
Le voglie degli uomini restavano sopite sotto quella pioggia sottile e insistente, l’asfalto stradale, lucido e nero, come uno specchio che rifletta il torpore pigro della notte.
Vesna, infreddolita, stanca e depressa, per una nuova serata d’ inutile lavoro, per il freddo, spostava di continuo la presa del piccolo ombrello da una mano all’altra, rifugiando la mano liberata nella tasca del corto giubbettino.
L’umidità della notte condensava in vapore niveo i suoi respiri, era trascorsa l’una e meditava di rinunciare a fermarsi oltre; ancora una decina di minuti e si sarebbe avviata al ritorno: voleva un latte caldo e un letto asciutto.
Quel mestiere era infame. Non era vero che per necessità ci si abituasse a tutto. Né lei, né Gledia si sarebbero mai abituate a quella vergogna.
Non ci si abitua a divenire carne in vendita esposta su una strada, piene di disprezzo per sé, di pensieri rovinosi e nausea che non ti abbandonano.
Misurare con i passi e il tempo della propria umiliazione, lungo quel metro di marciapiede, nelle attese tra un cliente e il prossimo, venuto a comprarti.
Il bisogno era angoscia, paura e disperazione, l’ultimo gradino di una voragine di degrado che ti inghiottiva un giorno dopo l’altro. La necessità era un obbligo lacerante, la si subiva come una malattia, non c’ era abitudine alla miseria.
Gledia, non scendeva in strada da dieci giorni, era ammalata: il freddo e l’umidità della notte le avevano infiammato polmoni, la febbre non l’abbandonava neppure con gli antibiotici, procurati attraverso un farmacista che, per soldi, forniva metadone e altro senza ricetta medica, a tossici e irregolari.
Erano delle clandestine, non potevano avere un medico e l’assistenza sanitaria, non potevano bussare a un ospedale per il timore di essere segnalate ed espulse dal paese.
Si sentiva spersa senza Gledia, tra loro si spalleggiavano e proteggevano: quando una saliva su un auto sconosciuta, l’altra ne rilevava la targa.
Nel caso non fosse tornata in un tempo utile, avrebbe, da una cabina pubblica, fatto una telefonata anonima alla polizia, indicando: ora, targa, modello e il colore del mezzo.
Da sola in strada, viveva col batticuore a ogni nuovo incontro.
Era snervante, salire auto con degli sconosciuti mascherando la paura nell’appartarsi al buio, in una via di capannoni industriali.
In quel mestiere imparavi a simulare: mostrare indifferenza al ruvido consumo di quei coiti, al disgusto che toglieva il respiro, per quei fiati e l’ igiene sommaria di certi corpi.
I fari di un auto, rallentando, l’avevano investita di un bagliore giallo: proiettando sul marciapiede la sua ombra distorta.
Una Porsche 911, nera, si era fermata davanti a lei.
La macchina, lucida di pioggia, brillava di lacrime cangianti alla luce dei lampioni, il motore, girando al minimo, emetteva il brontolio soffuso e potente, di un grosso felino acquattato.
Il vetro, sul lato passeggero, prese a scorrere verso il basso: l’uomo all’interno dell’ abitacolo restava in ombra, la brace della sua sigaretta era un punto vivo nel buio, una folata di fumo sfuggì dal varco del finestrino.Restò in silenzio, Vesna capì che stava valutando la merce esposta.
Si mosse lateralmente e aprì con uno scatto metallico la portiera: la luce dell’abitacolo illuminò un volto di giovane uomo dalle fattezze regolari e l’aria distaccata.
Non seguirono parole: il gesto era stato esplicito, Vesna, chiuse il piccolo ombrello e montò in macchina.
Torino - Giugno 1985
De Petris, si sentiva stanco, scoraggiato e nervoso.
Avesse avuto il vizio del fumo come Matranga, avrebbe almeno avuto il placebo di un’asticella di carta e tabacco come distrazione.
Era cresciuto in una famiglia di convinti ecologisti: non aveva mai acceso una sigaretta in vita sua, neppure quando al liceo, tutti i suoi amici si stonavano di canne e lo prendevano per il culo, dandogli dello sfigato.
Lo canzonava in maniera bonaria e affettuosa anche lei all’ inizio, quando si erano messi insieme al secondo anno del liceo.
Marzia era totalmente diversa da lui: c’ era del vero nella storia che, talvolta, gli opposti si attraggono.
Lui taciturno, riservato, quasi timido, restio ad apparire, sempre attento nel meditare le sue scelte.
Lei estroversa, istintiva, solare, vitale. Vivace come una cinciallegra, della quale possedeva la grazia leggiadra, la musicale loquacità e la tenacia.
Marzia, innamorata della vita, dotata di un instancabile dinamismo, unito alla voglia di conoscere tutto ciò che ritenesse utile alla sua crescita interiore.
Era una creatura dell’ aria, degli spazi, delle nuvole e del cielo, che solcava dispiegando le ali della curiosità, della fantasia e della gioia di vivere di cui, la natura, le aveva fatto dono.
Per qualcosa di incredibile e miracoloso, aveva posato lo sguardo su questo goffo animale terrestre, capace di volare quanto una tartaruga.
La cinciallegra si era innamorata di lui, della testuggine, che l’ aveva accolta come un dono, amandola più dalla propria vita.
Con lei aveva scoperto di possedere ali e capacità di seguirla in volo.
Avevano trascorso insieme anni di felicità, dal liceo agli studi universitari: lei in Lettere e Filosofia, lui in Giurisprudenza.
Si erano sposati freschi di laurea: lei attendeva un figlio che entrambi desideravano.
Per sbarcare il lunario: lei dava ripetizioni agli studenti, lui ebbe l’occasione di un concorso per entrare in Polizia, benché la paga fosse esigua, era un lavoro continuativo; col tempo avrebbe cercato qualcosa di meglio da fare, le occasioni non sarebbero mancate.
I loro genitori li aiutavano pagando loro l’affitto di casa: avevano trovato un piccolo alloggio, al primo piano di un edificio sul corso Vittorio Emanuele II, nel tratto tra il carcere de “Le Nuove” e la piazza Rivoli.
Il futuro e la vita apparivano benigne: il loro bimbo cresceva bene, loro si amavano, tutto scorreva nell’argine di una serena, continua, felicità.
Come respirare in un ridente mattino di primavera, senza ombre e profumato di fiori nuovi.
De Petris, guardava il cielo: lo splendore azzurro di una giornata di piena estate, faceva quasi male agli occhi per quanto era luminosa, non una sola nuvola a turbarne la nitida estensione.
C’ era un punto in cui le fronde degli alberi si dividevano, lasciando aperto uno scorcio d’ orizzonte: le cime alpine apparivano di un blu cobalto, sormontate di una pennellata candida, lo skyline torinese, regalo delle giornate di bel tempo.
Poteva elencare a mente i nomi di quasi tutte quelle montagne: dal Monviso, all’ Albergian, al Rocciamelone.
I suoi non amavano solo le foreste, ma anche le escursioni montane:effettuate con micidiali partenze all’alba, pure d’inverno.
A volte, quella estrema differenza di gusti verso la natura, gli aveva solleticato il dubbio di non essere realmente un loro figlio, ma che lo avessero adottato. Questo avrebbe spiegato quella discrepanza genetica e il suo rifiuto per tutto ciò che faceva: campeggio, escursioni in luoghi impervi, trekking, bestie e naturismo in genere.
(Continua)