1.
C’è la possibilità che ci scoprano, disse Silvia strizzandosi i capelli a bordo piscina. C’è la possibilità che tutto questo finisca molto male.
Sorrisi. Allungai le dita fino a sfiorarle i fianchi. Tutto questo cosa?, chiesi.
Avevo l’impressione che avessimo perso ogni traccia di realtà e che ci fossimo dimenticati la ragione per cui ci trovavamo lì, quella mattina di nuvole messicane, di cocktail abbandonati a bordo piscina, di caldo spossante e di acqua di colonia a buon mercato. Io e Silvia stavamo ammazzando l’attesa di qualcosa che in fondo sapevamo non sarebbe successo masticando della coca boliviana, immersi fino alle spalle nell’acqua brodosa della piscina del resort. Ci piaceva consumare quel vizio all’aria aperta, con il cloro a lambirci il collo. L’acqua emanava un vago odore di putrefazione. Il caldo dava al contesto una declinazione violenta. Pareva che qualcosa di terribile fosse in attesa di palesarsi, ma forse erano soltanto gli effetti della coca. Nel riflesso di quella piscina i contorni vaghi degli altri ospiti, in lontananza, apparivano irreali, fumosi.
I nostri capelli lunghi galleggiavano nell’acqua come meduse filiformi, si appiccicavano alle parti emerse dei nostri corpi abbronzati, poi si lasciavano trasportare dal moto dell’acqua, in un movimento costante. Ipnotico. Noioso. Forse ciò che incombe è la noia, pensai. A ben vedere, il caldo e la coca creavano una sorta di confine, di limite invalicabile alla comprensione del reale. Il caldo e i succhi delle foglie di boliviana sfumavano i contorni della piscina; l’unica cosa che ci teneva in qualche modo aggrappati alla realtà era il contatto della pelle con l’acqua, o così credevo.
Ci trovavamo al resort per partecipare a quello che a prima vista sarebbe sembrato un programma televisivo, solo che non c’erano telecamere, né nani addetti alla produzione, né anziane in bikini e ventagli giapponesi. Se c’era stata una produzione, e c’era stata, ormai era un ricordo, una traccia occulta, qualcosa che aveva consumato le prove della sua stessa esistenza nel momento esatto in cui aveva adempiuto al suo ruolo: organizzare un weekend in un resort pugliese, in cui dodici uomini e dodici donne avrebbero dovuto offrire le proprie carni alle voglie di un pubblico forse immaginario o forse no. A ognuno di noi dodici sarebbe stato assegnato un partner, con cui avremmo dovuto giocare alla seduzione, al tradimento; con cui ci saremmo scambiati massaggi e dentro cui saremmo affondati in silenzio.
Eravamo offerte.
Io e gli altri eravamo arrivati al resort la sera precedente e quasi nessuno aveva rispettato la consegna di restare nella nostra camera d’albergo. Nemmeno il tempo di sistemare la biancheria nella cassettiera ed ero scivolato nel bar del personale, come l’ombra di un castello risucchiato in un bosco fatato. Lì al bar avevo trovato una ragazza dai lineamenti decisi, una bellezza slava con capelli di cenere e occhi distanziati come quelli di un rettile letale. Stava bevendo un liquido rosso con aria rassegnata. Avevo pescato una bottiglia di prosecco da un frigo appannato e mi ero avvicinato alla ragazza. Avevo atteso, finché lei aveva fatto un cenno con la testa, allora avevo preso posto nello sgabello accanto a quello di quella ragazza dalle gambe come sciabole. Avevamo bevuto e parlato di tutto, tranne che del motivo per cui ci trovavamo lì. Più tardi altri ragazzi ci avevano raggiunto al bar, ma nessuno di loro aveva avuto il coraggio o la stupidità di fermarsi a parlare con noi. Silvia aveva un modo di ridere che pareva un oltraggio. Ubriachi, ci eravamo trascinati nella sua stanza, poi dentro la doccia, poi dentro di lei.
Eppure la spensieratezza che aveva accompagnato il nostro silenzio su quanto accaduto la sera precedente, quasi fossimo un sole senza sistema solare a cui dar conto, era evaporata la mattina presto, a colazione, quando un attacché, o forse un cameriere, di origini mediorientali, con indosso una tunica bianca e un copricapo cilindrico (di cui si diceva che organizzasse uno spettacolo di magia in cui faceva scomparire prima una colomba, poi un cane, infine una ragazza del pubblico), si era avvicinato al divano in cui io e Silvia stavamo riposando gli occhi e ci aveva informato che, nonostante quanto riferito in precedenza e dato per certo da molti, il profeta non si sarebbe presentato, non lì, non quel giorno. Silvia aveva aperto un occhio e aveva chiesto che profeta, ma l’attacchè era ormai scomparso, assieme alla sua notizia. L’attacché era un vero professionista, in fatto di sparizioni. Come nella migliore tradizione biblica, il suo ruolo da messaggero del profeta era esaurito e lui era ormai storia, inutile acqua di palude. Quando Silvia mi aveva svegliato e mi aveva riferito che il profeta non sarebbe venuto, le dissi di tranquillizzarsi, di non lasciarsi traumatizzare da quella novità. Noi non eravamo lì per il profeta. Allora lei aveva sorriso e mi aveva trascinato in piscina.
Eravamo lì, storditi dal torpore dell’acqua paludosa, quando notammo, in lontananza, un incendio muovere verso di noi.
2.
L’incendio si chiamava Jimmi, il vero nome non volle svelarcelo. Gli animatori del resort avevano contattato Jimmi quando era stato chiaro che il profeta non avrebbe adempiuto i suoi obblighi contrattuali. L’attacché aveva avuto ragione, sul suo conto. Il profeta aveva preferito orientare la sua magia verso nord, in un paese alle porte di Ostuni, ospite di prestigio del matrimonio di un misterioso mercante di film pornografici.
Quando avevo notato l’incendio muovere rapido in direzione del resort mi ero issato a bordo piscina, avevo lasciato che l’acqua scolasse giù per il mio corpo, a favore di un numero imprecisato di spettatori immaginari, infine avevo invitato Silvia a uscire dalla vasca. Mi aveva guardato con aria imbronciata, ma poi aveva seguito il mio sguardo e aveva notato la massa informe di fiamme ululanti, che sembrava scivolare sull’asfalto polveroso delle desertiche strade pugliesi come un incantesimo fuori controllo. Che razza di roba è?, aveva chiesto Silvia. Per un istante la sua attenzione era stata massima, aveva sgranato gli occhi e non era riuscita a staccarli dall’incendio mobile, forse si era chiesta se stesse sognando. Infine, aveva sbattuto le palpebre e arricciato il naso, quando la prima zaffata di bruciato aveva soggiogato i confini del resort cogliendoci impreparati. Non so cos’è, avevo risposto. Mi ero riparato gli occhi dal sole usando la mano a mo’ di visiera. Da qualche tempo la mia vista era peggiorata, ormai si poteva dire che avessi bisogno degli occhiali anche per centrare il buco della tazza così, mentre l’incendio si avvicinava al resort, rumoroso come l’inferno di Dante, avevo strizzato gli occhi fino a farmi venire il mal di testa. Quel tipo di emicrania per cui ti dimentichi di avere un corpo, sotto il mento. Avevo detto non so cos’è, ma penso che non sia nulla di buono. Forse è la fine del mondo. Non so perché avessi detto così, probabilmente per fare un po’ di scena. Silvia era rimasta in silenzio a ammirare lo spettacolo delle fiamme mobili, e man mano che si era avvicinato, ci eravamo accorti che l’incendio era molto più contenuto di quanto ci fossimo aspettati. Era quasi piacevole, non fosse stato per la puzza che ne anticipava la venuta. Credo sia una macchina, aveva detto Silvia, sbadigliando.
(continua)
C’è la possibilità che ci scoprano, disse Silvia strizzandosi i capelli a bordo piscina. C’è la possibilità che tutto questo finisca molto male.
Sorrisi. Allungai le dita fino a sfiorarle i fianchi. Tutto questo cosa?, chiesi.
Avevo l’impressione che avessimo perso ogni traccia di realtà e che ci fossimo dimenticati la ragione per cui ci trovavamo lì, quella mattina di nuvole messicane, di cocktail abbandonati a bordo piscina, di caldo spossante e di acqua di colonia a buon mercato. Io e Silvia stavamo ammazzando l’attesa di qualcosa che in fondo sapevamo non sarebbe successo masticando della coca boliviana, immersi fino alle spalle nell’acqua brodosa della piscina del resort. Ci piaceva consumare quel vizio all’aria aperta, con il cloro a lambirci il collo. L’acqua emanava un vago odore di putrefazione. Il caldo dava al contesto una declinazione violenta. Pareva che qualcosa di terribile fosse in attesa di palesarsi, ma forse erano soltanto gli effetti della coca. Nel riflesso di quella piscina i contorni vaghi degli altri ospiti, in lontananza, apparivano irreali, fumosi.
I nostri capelli lunghi galleggiavano nell’acqua come meduse filiformi, si appiccicavano alle parti emerse dei nostri corpi abbronzati, poi si lasciavano trasportare dal moto dell’acqua, in un movimento costante. Ipnotico. Noioso. Forse ciò che incombe è la noia, pensai. A ben vedere, il caldo e la coca creavano una sorta di confine, di limite invalicabile alla comprensione del reale. Il caldo e i succhi delle foglie di boliviana sfumavano i contorni della piscina; l’unica cosa che ci teneva in qualche modo aggrappati alla realtà era il contatto della pelle con l’acqua, o così credevo.
Ci trovavamo al resort per partecipare a quello che a prima vista sarebbe sembrato un programma televisivo, solo che non c’erano telecamere, né nani addetti alla produzione, né anziane in bikini e ventagli giapponesi. Se c’era stata una produzione, e c’era stata, ormai era un ricordo, una traccia occulta, qualcosa che aveva consumato le prove della sua stessa esistenza nel momento esatto in cui aveva adempiuto al suo ruolo: organizzare un weekend in un resort pugliese, in cui dodici uomini e dodici donne avrebbero dovuto offrire le proprie carni alle voglie di un pubblico forse immaginario o forse no. A ognuno di noi dodici sarebbe stato assegnato un partner, con cui avremmo dovuto giocare alla seduzione, al tradimento; con cui ci saremmo scambiati massaggi e dentro cui saremmo affondati in silenzio.
Eravamo offerte.
Io e gli altri eravamo arrivati al resort la sera precedente e quasi nessuno aveva rispettato la consegna di restare nella nostra camera d’albergo. Nemmeno il tempo di sistemare la biancheria nella cassettiera ed ero scivolato nel bar del personale, come l’ombra di un castello risucchiato in un bosco fatato. Lì al bar avevo trovato una ragazza dai lineamenti decisi, una bellezza slava con capelli di cenere e occhi distanziati come quelli di un rettile letale. Stava bevendo un liquido rosso con aria rassegnata. Avevo pescato una bottiglia di prosecco da un frigo appannato e mi ero avvicinato alla ragazza. Avevo atteso, finché lei aveva fatto un cenno con la testa, allora avevo preso posto nello sgabello accanto a quello di quella ragazza dalle gambe come sciabole. Avevamo bevuto e parlato di tutto, tranne che del motivo per cui ci trovavamo lì. Più tardi altri ragazzi ci avevano raggiunto al bar, ma nessuno di loro aveva avuto il coraggio o la stupidità di fermarsi a parlare con noi. Silvia aveva un modo di ridere che pareva un oltraggio. Ubriachi, ci eravamo trascinati nella sua stanza, poi dentro la doccia, poi dentro di lei.
Eppure la spensieratezza che aveva accompagnato il nostro silenzio su quanto accaduto la sera precedente, quasi fossimo un sole senza sistema solare a cui dar conto, era evaporata la mattina presto, a colazione, quando un attacché, o forse un cameriere, di origini mediorientali, con indosso una tunica bianca e un copricapo cilindrico (di cui si diceva che organizzasse uno spettacolo di magia in cui faceva scomparire prima una colomba, poi un cane, infine una ragazza del pubblico), si era avvicinato al divano in cui io e Silvia stavamo riposando gli occhi e ci aveva informato che, nonostante quanto riferito in precedenza e dato per certo da molti, il profeta non si sarebbe presentato, non lì, non quel giorno. Silvia aveva aperto un occhio e aveva chiesto che profeta, ma l’attacchè era ormai scomparso, assieme alla sua notizia. L’attacché era un vero professionista, in fatto di sparizioni. Come nella migliore tradizione biblica, il suo ruolo da messaggero del profeta era esaurito e lui era ormai storia, inutile acqua di palude. Quando Silvia mi aveva svegliato e mi aveva riferito che il profeta non sarebbe venuto, le dissi di tranquillizzarsi, di non lasciarsi traumatizzare da quella novità. Noi non eravamo lì per il profeta. Allora lei aveva sorriso e mi aveva trascinato in piscina.
Eravamo lì, storditi dal torpore dell’acqua paludosa, quando notammo, in lontananza, un incendio muovere verso di noi.
2.
L’incendio si chiamava Jimmi, il vero nome non volle svelarcelo. Gli animatori del resort avevano contattato Jimmi quando era stato chiaro che il profeta non avrebbe adempiuto i suoi obblighi contrattuali. L’attacché aveva avuto ragione, sul suo conto. Il profeta aveva preferito orientare la sua magia verso nord, in un paese alle porte di Ostuni, ospite di prestigio del matrimonio di un misterioso mercante di film pornografici.
Quando avevo notato l’incendio muovere rapido in direzione del resort mi ero issato a bordo piscina, avevo lasciato che l’acqua scolasse giù per il mio corpo, a favore di un numero imprecisato di spettatori immaginari, infine avevo invitato Silvia a uscire dalla vasca. Mi aveva guardato con aria imbronciata, ma poi aveva seguito il mio sguardo e aveva notato la massa informe di fiamme ululanti, che sembrava scivolare sull’asfalto polveroso delle desertiche strade pugliesi come un incantesimo fuori controllo. Che razza di roba è?, aveva chiesto Silvia. Per un istante la sua attenzione era stata massima, aveva sgranato gli occhi e non era riuscita a staccarli dall’incendio mobile, forse si era chiesta se stesse sognando. Infine, aveva sbattuto le palpebre e arricciato il naso, quando la prima zaffata di bruciato aveva soggiogato i confini del resort cogliendoci impreparati. Non so cos’è, avevo risposto. Mi ero riparato gli occhi dal sole usando la mano a mo’ di visiera. Da qualche tempo la mia vista era peggiorata, ormai si poteva dire che avessi bisogno degli occhiali anche per centrare il buco della tazza così, mentre l’incendio si avvicinava al resort, rumoroso come l’inferno di Dante, avevo strizzato gli occhi fino a farmi venire il mal di testa. Quel tipo di emicrania per cui ti dimentichi di avere un corpo, sotto il mento. Avevo detto non so cos’è, ma penso che non sia nulla di buono. Forse è la fine del mondo. Non so perché avessi detto così, probabilmente per fare un po’ di scena. Silvia era rimasta in silenzio a ammirare lo spettacolo delle fiamme mobili, e man mano che si era avvicinato, ci eravamo accorti che l’incendio era molto più contenuto di quanto ci fossimo aspettati. Era quasi piacevole, non fosse stato per la puzza che ne anticipava la venuta. Credo sia una macchina, aveva detto Silvia, sbadigliando.
(continua)