Il seme dell’odio Pt. 7

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Il seme dell’odio Pt. 7


Davanti all’ anziano krisnìtor, De Petris si produsse nei convenevoli: chiedendogli come stesse e affermando di trovarlo in gran forma.
L’altro, poco interessato a smancerie, continuando a fumare la pipa, si limitava ad assentire con aria annoiata.
L’agente gli raccontò brevemente della donna di cui erano alla ricerca, gli mostrò la stampa della foto e chiese se potessero mostrala in giro per il campo, verificando se qualcuno la riconoscesse e l’avesse casualmente incontrata di recente.
Yanko Sejdic, con un movimento della testa, acconsentì: - Appendila lì. - disse, indicando la foto e una plancia col fondo in sughero, apposta alla fiancata del caravan alle sue spalle, dove giacevano affisse piccole locandine e comunicazioni di servizio del campo.
- Inutile che andiate chiedendo in giro - aggiunse Sejdic, scettico. - non vi direbbe niente nessuno.
Matranca raccattò quattro puntine da disegno dal sughero e fissò l’immagine sugli angoli.
Poi l’anziano sinti urlò due nomi e subito comparvero due ventenni a petto nudo: ìl corpo vigoroso e brunito, trapuntato di elaborati tatuaggi, si apprestarono solleciti agli ordini che dettò con tono autoritario.

- Ho chiesto che tutti quelli disponibili vengano qui a guardarsi la foto della donna che state cercando. - spiegò agli agenti - Se qualcuno l’ha vista, davanti a me ve lo dirà.
Ringraziarono riconoscenti, l’uomo fece cenno con la mano a intendere che non ve n’era bisogno.
In una decina di minuti, una quarantina di persone si radunarono, disponendosi ordinatamente in fila in fronte alla foto. Una alla volta si fecero avanti, a osservare il ritratto.
L’ operazione si svolse in maniera calma e metodica: a turno, guardarono la foto scuotendo la testa o allargando le braccia, a significare di non conoscerla. Dopo una quarantina di minuti deludenti, i due poliziotti avevano l’aria scorata di chi già pensava a cosa li attendesse al termine di quel nuovo fallimento.

Depressi si apprestarono a recuperare la foto per tornarsene sui loro passi, ma, il capo clan, fece cenno di attendere: - C’è ancora qualcuno che può aiutarvi. - disse. Quindi parlottò con uno dei due tatuati e quello partì a eseguire quanto richiestogli.
- Fate vedere la foto alla vecchia Anelka. - I due si guardarono senza comprendere.
- Lei sa “vedere” nelle cose, lei trova le “cose nascoste”. - sentenziò, Sejdic.
Matranca si accese una sigaretta. Attesero pazientemente una ventina di minuti.
La vecchia Anelka, comparve accompagnata dal giovane rom, avanzava a piccoli passi, sorreggendosi a un bastone.

Era una gitana dall’aspetto centenario: mostrava la dignità altera di una regina. Vestiva un ricco e colorato costume della sua gente, con i folti capelli candidi raccolti un una lunga treccia guarnita di piccoli fiocchi di velluto.
Si fermo davanti a loro, aveva occhi chiari e ridenti, profusi di una placida serenità: sorrise con denti bianchissimi al loro saluto.
- Mostratele la fotografia - disse l’anziano krisnìtori. Lo fecero.
La vecchia prese l’immagine e la osservò con attenzione, poi chiuse gli occhi e vi passò la mano sopra, ripetendo il gesto più volte, mentre mormorava un breve incomprensibile litania. Sembrava pregasse.
Quando li riaprì il suo viso era teso e grave, lo sguardo, rabbuiandosi, aveva perso la sua dolcezza.
I due attesero che si pronunciasse, ma la vecchia, restò in silenzio, col viso inespressivo, anche lei pareva attendere qualcosa.
Rimasero un quello stallo per qualche lungo minuto, poi Sejdic ruppe il silenzio:- Regalatele qualcosa e lei vi dirà cosa ha visto.
Matranca guardò il collega con aria dubbiosa, serrando nervosamente la sigaretta tra le labbra.
De Petris mostrava uguale sconcerto: la cosa gli sapeva della solita storia della zingara, che ti leggeva la mano chiedendo soldi.
Si disse che cinquemila lire, in più o in meno, non lo avrebbero fatto più ricco, a quel punto erano in ballo e tanto valeva seguire la musica. Magari la donna aveva davvero qualcosa di utile da rivelargli: fece il gesto di mettere mano al portafoglio nella tasca posteriore dei calzoni.

Anelka scosse la testa, poi, col dito, indicò la sigaretta in bocca al collega.
- Vuoi sigarette? - Chiese De Petris, lei confermò col capo.
- Matrà, vuole delle sigarette, dagliele dai.
- Ma cazzo, De Pè, me ne restano meno di dieci nel pacchetto e ci devo passare la giornata. - Si lamentò l’altro.
- Dai Matrà, non fare il “rancino”, lo so che, nel borsetto del cinturone, ne hai un pacchetto di riserva. - Ribattè il collega.
Con aria mal disposta, l’agente aprì, riluttante, il borsetto e sporse il pacchetto vergine alla nomade.
La vecchia lo fece sparire in una tasca della lunga gonna, poi iniziò a parlare: - Bunica golanului a fost o vrăjitoare. - mormorò.
- Sua nonna era la strega. - tradusse, il capo clan.
- Nahel. Duhi. - aggiunse
- E’ cosa cattiva, è male.
La vecchia aveva gli occhi chiusi e sembrava leggere nella mente ciò che aveva visto.
- O vrăjitoare nu poate face cu adevărat o creatură nemuritoare.
- Una strega non può creare davvero un immortale.
- Čajuri. - Bambino. - ripeté l’anziano.
- Însărcinată cu copilul demon.
- Incinta del figlio del diavolo.
- Blestem. - Maleficio.
Infine emise un lungo sospiro e bisbigliò con un filo di voce: - Și mori femeia e moartă.
- È morta. La danna è morta. - tradusse ancora Sejdic.
Riaprì gli occhi: appariva stremata, guardò De Petris con aria mesta:
- Nu o mai căuta. - Non cercarla più. - concluse il capo clan.
I due Agenti si guardarono non sapendo se deprimersi per ciò che avevano sentito o pensare che fossero una serie di fesserie.
De Petris, però, pur essendo scettico, ammise con sé stesso un motivo di dubbio: ovvero, il fatto che la vecchia avesse parlato di un figlio della donna che stavano cercando. Non poteva sapere del bambino, poiché neppure a Sejdic lo avevano rivelato.
Questa cosa gli lasciò una sensazione irrisolta, come una puntura fastidiosa: non era così certo se dubitare pienamente di ciò che aveva udito.
Certo che, se la vecchia ci avesse preso davvero, per il loro lavoro era una bella fregatura: doversi ficcare nella jungla per ritrovarsi con due cadaveri. Quello di lei e l’altro del figlio.

Entrarono nella stradina sterrata che conduceva alla zona boschiva.
Il terreno era fangoso per la pioggia della notte prima, a tratti un vero pantano, i pneumatici della pantera slittavano nella melma, sobbalzando su grossi sassi sporgenti.
Dopo i primi duecento metri fu impossibile proseguire in auto, la stradina diveniva un sentiero stretto che si perdeva nel fitto della boscaglia, bisognava procedere a piedi.
Lasciarono il mezzo e iniziarono a percorrerlo di malavoglia.
Vi erano depressioni del terreno in cui stagnavano pozze d’acqua occultate dall’erba, che in certi punti arrivava alla cintola: si ritrovarono presto fradici fino a metà dei polpacci.
Colorite imprecazioni echeggiavano facendo fuggire stormi di merli dalle fronde degli alberi.
- Porca zozza, De Pè. Cominciamo bene. Ma dici che è tutto un casino così qui?
- Eh. Mi sa di sì Matrà. Proprio per evitare questo, speravo in una botta di culo, trovando qualche notizia della tipa, senza sorbirci ‘sta scampagnata.
- Ti pareva, con la sfiga che abbiamo...
- E’ il karma, Matrà, fatti forza.
- Mestiere di merda, De Pè. Altro che karma: abbiamo sbagliato tutto nella vita.
Facevano passi cauti, cercando di non scivolare nella melma, schiacciando steli d’erba sotto le scarpe coperte di fango, per avere una presa più salda nel passo.
- De Pè, sei sicuro che in ‘sto posto non rischiamo di finire nelle sabbie mobili?
- Eddai. Mica siamo in Africa o in Amazzonia? Non esagerare Matrà.
- Vabbè, è un attimo che, anche senza sabbie mobili, finiamo in qualche buco e ci spacchiamo una gamba.
- Che fai Matrà, ce la tiri? Non ti pare che siamo gìà sfigati il giusto?
Il sole delle due di pomeriggio picchiava inesorabile: gli insetti di ogni ordine e grado divenivano più attivi, De pertris ricordava che fosse così anche per i rettili.

L’idea gli procurò un brivido gelido, lungo la schiena sudata.

(Continua)
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