Il seme dell’odio Pt. 6

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Il seme dell’odio Pt. 6


Vesna - Settembre 1977 - Kozjansko - Slovenia

Aveva 18 anni compiuti da sei mesi Vesna, quando la vecchia nonna morì lasciandola sola nella koliba in riva al torrente, che si gettava impetuoso nel Bistica, diversi chilometri più a valle.
Lo stesso torrente che scorreva sfiorando Kozjansko, il piccolo paese con le sue pietre bianche di modeste abitazioni in calce e lastroni di roccia carbonica, che neppure il sole d’estate riusciva a scaldare, lasciandole fredde come i cuori di chi le abitava.
La nonna raccoglieva fiori ed erbe officinali che essiccava e conservava in vasi di terracotta, con cui creava: pozioni, polveri per infusi e unguenti balsamici che offriva alla gente del posto. Talvolta accompagnate dai suoi riti di preghiera segreta.
Ne riceveva in cambio vivande e le modeste cose che occorrevano alla loro vita in quella piccola capanna al limite de bosco.
In molti giungevano fino a loro per richiedere il lavoro e le opere dalla vecchia: lo facevano con l’aria circospetta di chi non desidera che altri sappiano, poiché i loro bisogni non si esaurivano nelle tisane e pomate dal profumo aromatico e dagli effetti medicamentosi, ma richiedevano ben altri generi di ausilio.
Quel genere di pratiche che la nonna assolveva, nel corso di certe notti di novilunio, alla luce di una candela nera, nella stanza della koliba a cui Vesna non aveva accesso.
Nel compierle si avvaleva di un antico libro, che conteneva gli ideogrammi e le parole che davano il potere d' influenzare le energie invisibili della terra, delle acque e dell’aria.
La bambina, crescendo, si interrogò su quale fosse l’arte esercitata di colei che le aveva fatto da madre, quel segreto che a lei era negato di conoscere.
Vesna era attenta, e presto iniziò a cogliere le parole mormorate a bassa voce, il segnarsi a croce al suo passaggio dalla gente del villaggio: “veštica”, si dicevano, mormorandolo sottovoce, parlando di lei.
Veštica: uno dei tanti modi, nelle lingue slave, per indicare le fattucchiere o le streghe.

Quella verde zona della Slovenia, dove nelle primavere nascevano il giglio carniolico e il trifoglio, che rigogliosa di fiori come i bucaneve, le primule e l’elicriso dorato, simile nella sua fragranza alla liquirizia, Vesna era cresciuta in solitudine, bella e selvatica come un fiore sbocciato nella penombra del sottobosco.
Lontana dalla gente del posto e dai giochi in comune con i loro figli.
Tutti nel villaggio la sfuggivano, come da qualcosa di cui si ha timore, similmente a un morbo che contamini il corpo o all’ influsso inesorabile di un malocchio che corrompa l’anima.
Perché Vesna era segnata: veniva da una progenie maledetta, la sua vicinanza si diceva portasse malattia e sventura.
Sua madre incarnava l'anima dannata delle leggende slave, la “rusalki”: lo spirito maligno che tormentava gli uomini conducendoli alla pazzia o al suicidio, rendeva sterili le donne e il bestiame, faceva marcire il raccolto dei campi, prosciugava le sorgenti e i pozzi, poiché vagava senza pace in seguito a una morte violenta.
La madre fu ripescata nel fiume a tre giorni dalla propria scomparsa. Dissero che si fosse tolta la vita per la perdita dell'uomo amato, altri insinuarono che fu lui a ucciderla: annegandola nelle acque del Bistica per gelosia.
La cosa non fu mai chiarita: l’uomo era scomparso, forse fuggito dopo il delitto, o semplicemente partito a cercare fortuna in una paese lontano, fuori dalla Jugoslavia governata da Tito.
Dopo un anno nessuno più lo cercò e se ne disinteressarono.

La bimba, venuta al mondo da pochi mesi, fu allevata dalla nonna con grande amore: giorno dopo giorno, le insegnò i nomi e le qualità delle piante, la loro utilità per alleviare i mali del corpo o dare ristoro all’anima.
Anche lei, ma solo al tempo giusto, avrebbe avuto accesso allo stanzino chiuso della koliba: avrebbe conosciuto i segreti delle erbe, le preghiere e le parole per mutare l'ordine delle cose, i riti per favorire guarigione o causare malattia, le invocazioni alle forze oscure che hanno potere sulle cose e le anime dei vivi e dei morti.
A sedici anni Vesna apprese l’arte di mescolare le sostanze vegetali per ottenere pozioni, uccidere pipistrelli e vipere per i riti che richiedevano il loro sangue essiccato; ricavare dalle ghiandole del corpo dei rospi un veleno denso e bianco che il batrace trasudava come arma di difesa. Una sostanza chiamata anche "latte di rospo": un potente allucinogeno usato dagli sciamani per aprire la strada ai viaggi extracorporei della mente, nel cercare il contatto con gli spiriti dei defunti. Sopratutto conobbe le formule arcane per muovere le energie nascoste agli occhi e ai sensi degli uomini.

Alla morte della nonna, lasciò la capanna e il minuscolo paese che mai l'aveva amata: pronta a prendere in mano il proprio futuro.
Al casello d’ autostrada che portava al nord, con le sue poche cose raccolte in uno zaino, chiese un passaggio a un Tir diretto oltre il confine. Passò la frontiera a Lubiana e proseguì il suo viaggio in terra italiana fino alla città tra i due fiumi, posta ai piedi delle Alpi.
Giunse a Torino in una notte di pioggia battente: ad accoglierla nel freddo e nel buio, trovò solo una via periferica, dove il camionista che l’aveva raccolta la lasciò, prima di procedere alla consegna del suo carico.
Quel capoluogo di provincia, non l'accolse con maggior calore ed empatia del luogo da cui era venuta: presto avrebbe compreso che la grande città era solo una matrigna più ampia del piccolo villaggio natio.
La vita all’ombra della Mole, riservava agli stranieri la stessa fredda diffidenza della gente di Kozjansko e sovente mostrava, ai suoi ospiti più deboli e bisognosi, il volto più arcigno e cinico che possedeva.
Non aveva denaro con sé la ragazza: il pedaggio per quel lungo viaggio, venne pagato al conducente del mezzo con la sua verginità.
Perduta con un sesso frettoloso e sordido, sullo squallido strapuntino della cabina di guida del veicolo.



Mentre Avanzavano con passo sicuro e cipiglio autorevole, verso il caravan del dominus del campo, i bimbi festanti, con caparbia insistenza, tendevano le mani richiedendo monetine o caramelle, incuranti dei loro gesti di diniego.
Gli adulti seduti placidamente davanti alle loro case viaggianti, o affaccendati in qualche attività, osservavano la scena senza mostrare curiosità o sorpresa per gli intrusi "gagè” in divisa, che sicuramente venivano a portare qualche rogna.
Tra sguardi distratti o diffidenti, giunsero al caravan “Hymer Mobil 650“ del capo clan.
Erano già stati lì per servizio altre volte, le loro facce non erano nuove a Yanko Sejdic, il cui nome, in qualcuno dei loro idiomi, significava:"Dio è buono”, se li ricordava bene entrambi.
L’anziano settantenne, lungo e affilato, con un viso cotto dal sole e scolpito in una ragnatela di rughe come incise nel cuoio, li osservò attraverso le due fessure smeraldine che aveva per occhi.
Yanko Sejdic, con la fedina penale macchiata da numerosi reati verso il patrimonio, traffico di auto rubate con i paesi balcanici e il Medio Oriente, risse con coltello in pugno, era l’autorità indiscussa del campo e a suo modo un uomo integro, che credeva nella sacralità della parola data e del rispetto amicale.
Disteso su uno sdraio da spiaggia, davanti alla soglia della sua lussuosa abitazione mobile, fumava, con gusto e lentezza, una lunga pipa di gesso.
Pareva immerso in pensieri profondi, mentre era intento a seguire voli di gabbiani che facevano la spola tra il Sangone e i loro nidi.
Salutarono l’anziano nomade che rispose con un conciso cenno del capo.

(Continua)
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