Il seme dell’odio Pt.4

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Il seme dell’odio Pt.4



Vesna - Novembre 1980 - Torino

Quel mostriciattolo privo di anima e cervello era il figlio del diavolo.
Lo comprendevi nel guardargli le ditine aguzze come artigli, con unghie cornee sottili e taglienti come rasoi, la pelle cadaverica, tesa e bianca, come cera.
Quegli occhi inquietanti, privi i iride, infossati in un teschio abnorme per quel corpo, con pupille rosse nel cui interno parevano brillare le fiamme dell’ inferno.
Può una madre odiare la carne della propria carne, generato dal suo stesso sangue?
Può provare repulsione e paura nel guardarlo, nell’ avvicinarlo anche solo per dargli nutrimento?
Averlo allevato nel proprio ventre per nove mesi, avvertirlo come un essere alieno o un tumore maligno che, lentamente, prendeva quelle sembianze mostruose.
Vesna, ricordava il momento della nascita come un supplizio disumano: un’ esperienza di dolore inenarrabile, accecante, al punto da farla impazzire e desiderare la morte.
Quella cosa, suo figlio, non voleva venire alla luce, avrebbe preferito vivere nelle tenebre del suo ventre, nutrirsi di lei, dei suoi fluidi vitali, consumala lentamente, come una larva di Cochliomyia hominivorax.
Una mosca carnivora presente nell’ America latina e nei Caraibi, il cui nome: “hominivorax”, significava letteralmente "mangiatore di uomini"; così, come le aveva raccontato, una volta, Dragan, mentre leggeva un testo di entomologia del suo corso di studio.

Una temibile specie parassita, le cui larve sono rinomate per mangiare e infestare la carne di organismi viventi, animali a sangue caldo, tra cui l’uomo,
Gli ombelichi dei neonati possono essere siti adatti a ospitare lo sviluppo del parassita, il quale si riproduce solo sulla carne di un ospite vivente, attaccando e cibandosi di tessuti sani insieme a tessuti in decomposizione.
Quando le larve si schiudono: scavano in profondità nella pelle, fino alla carne viva, si espandono nel corpo continuando a nutrirsi dei fluidi della ferita e del tessuto della vittima.
Una bestia di satana era quell’ essere, non aveva nulla di umano.
Nel partorirlo, era nato un odio reciproco, quella cosa, non voleva venire al mondo, il travaglio era stato un calvario di sofferenze allucinanti: si era aggrappata con gli artigli, straziandogli le pareti
dell' utero, solo il forcipe era riuscito a stanarlo da quel nido sanguinolento, del quale aveva divorato la placenta che lo ospitava.
Il suo urlo nel vedere la luce aveva raggelato il sangue dei presenti, prima ancora dell’orrore, sbigottito, provocato del suo aspetto disumano.
Vesna, vinta dal dolore, esausta e dissanguata, aveva perso conoscenza, la si era tenuta in un lungo sonno anestetico durato quasi un giorno.
Nella sala d’ostetricia era stato effettuato un lungo intervento chirurgico, procedendo a una isterectomia radicale, per arginare i danni irrecuperabili procurati dal parto.
Non avrebbe più potuto procreare, se mai ne avesse avuto ancora desiderio,
per questo e altro odiava quell’ figlio: frutto di un peccato senza perdono rivolto a Dio e dell’ inganno, senza perdono, compiuto da un uomo.



Il giro al mercato e per le botteghe di via Pavese fu meno insoddisfacente, ma, altrettanto infruttuoso di quello compiuto agli orti.
Diversi commercianti dei negozi e delle bancarelle riconobbero la giovane della foto, alcuni immediatamente, altri facendo mente locale: qualcuno commentando che, un bel viso così, non passava inosservato. Ugualmente nessuno aveva fatto caso se non si vedesse da un po’; la ricordavano nel fare acquisti, ma, non sapevano dire con esattezza quanto tempo prima fosse avvenuto.
L’unico soddisfatto era Matranca, mente divorava il suo panino, la Coca ghiacciata e attendeva il caffè al bar d'angolo della via.
De Petris commentò: - Vabbè! Non abbiamo cavato un ragno dal buco, ma qui almeno qualcuno si ricordava di conoscerla.
Matranca, a bocca piena sentenziò: - Certo, dicono di conoscerla. Qui mica l’ hanno vista battere il marciapiede o farsi di roba.
Montarono in auto diretti al campo nomade: svoltarono sul corso Orbassano in direzione Stupinigi.

Il campo era situato in un ampia radura oltre il torrente Sangone; si vedeva in lontananza la Reale Palazzina di Caccia di Stupinigi, famosa per l’ iconica statua in bronzo raffigurante un cervo, posta alla sua sommità.
Matranca in vena d' ironia, non poté trattenersi dal commentare: - Certo che sarà stata un villa reale, ma, piazzarci un animale sul tetto, con quel cespuglio di corna, la dice lunga sul padrone di casa. - La battuta gli provocò una gustosa ilarità.
- Che ti ridi? - disse De Petris - Quello è il simbolo della fauna venatoria presente un tempo nel luogo.
- Ah? Vuoi dire che non si riferisce alle corna del Savoia? Ahahaha!
De Petris alzò gli occhi al cielo: - Ma, perché ci perdo tempo, nel parlare con te Matrà?
- Oh! Bè! Ma quanto la fai lunga. E fatti una risata ogni tanto. Allora, sapientone: perché il re si è messo un animale cornuto sul tetto di casa?
- Dunque, - riprese l’altro, - se ti interessa, devi sapere che, fino al 1848 il parco di caccia della Casa Reale di Stupinigi, ospitava oltre a fagiani, lepri e cinghiali, anche moltissimi daini e cervi. Per questo fu scelto come elemento simbolo il cervo.
- Ok! E com’ è, che adesso ci sono solo topi che si mangiano le uova degli uccelli e bisce che si mangiano i topi?
- Perché il cervo scomparve dall’ area a causa di una strage, attuata da un tale Giuseppe Franco Agnelli, nonno del fondatore della Fiat, il quale, diede luogo a tale ecatombe per una sua vendetta.
- Azz! Che gli avevano fatto i cervi? Si erano ingroppati la moglie?
- Non dire cazzate Matrà! Dovette, a un certo punto, pagare una multa molto salata, da lui ritenuta ingiusta, comminatagli dai guardiani del parco per aver cacciato cervi, nei propri possedimenti, situati all'interno del parco stesso. Caccia ritenuta proibita in quanto “cervi del parco del re”.
Quindi non cacciabili da nessuno che non fosse della famiglia reale, o avesse il suo permesso.
Ergo, risentito da quella che gli sembrò una grave ingiustizia, l'Agnelli, ordinò lo sterminio radicale degli animali, ponendo fine all'esistenza nella zona di questo nobile ungulato.
- Alla faccia del cazzo! Sbottò Matranca. - Nervosetto nonno Fiat.
- Eh. Toccagli il portafoglio a nonni e nipoti Fiat, che vedi che fine fai. Buon sangue non mente.
- De Pè. Senti: cambiando argomento. Ma, secondo te se faccamo vedere la foto di ‘sta qua, agli zingari, ne ricaviamo qualcosa? - disse Matranca in con un sospiro sconsolato.
- Non possiamo escludere che essendo vicini al posto dove vive, non gli sia capitato d’incrociarla o vedere qualcosa di utile. - rispose, serafico, De Petris.
- Boh? Può essere. Poi questa è delle loro parti. Chissà’, alla fine sono tutti imparentati tra loro ‘sti cazzo di slavi e albanesi. Magari abbiamo più fortuna che con i pensionati rincoglioniti degli orti. - Concluse Matranca.
- Matranca, tu con la geografia e le etnie, non ci prendi molto. Mica tutti gli salvi sono Rom, nomadi e viceversa. Questa veniva da un posto della Jugoslavia, mica era per forza una nomade.
- Cazzo ne so? Quelli che arrivano da quelle parti, per me, o sono badanti o sono zingari.
- See! Vabbè. - sospirò, De Petris.
- Guarda, te lo dico io: per me ci perdiamo solo la mattinata. Comunque va bene, se dobbiamo, facciamolo. Ci togliamo dai coglioni anche ‘sta rottura di palle con gli zingari, poi ci tocca quella più grossa di infilarci in quel troiaio di erba, alberi, spine e bestie. Però dopo il giro dagli zingari, ci fermiamo un momento in un altro bar, perché io devo assolutamente pisciare, che prima me ne sono dimenticato e non voglio farmela in macchina.
- Va bene. Apposto così o ti serve altro?
- Sì. Di fumarmi una stracazzo di sigatta, altrimenti do di matto.
De Petris, annui con uno sguardo compassionevole.
- Oh, bèh! De Petris, mica tutti sono come te, che non mangi, non bevi, non sudi e non pisci mai. Sembri un marziano figlio mio.


(Continua)
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