Il seme dell’odio Pt.3

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Il seme dell’odio Pt.3


Prima di affrontare la visita al campo nomadi, poiché erano di strada e dopo avrebbero comunque dovuto farlo, De Petris, decise di fare una piccola variazione al percorso: chiese a Matranca di spostarsi alla parallela, tre traverse più in là, verso centro città: nella via Pavese.
Lì, a quell’ora del mattino, si svolgeva il quotidiano mercatino rionale, inoltre, era la sola via della zona, più prossima all’ abitazione della scomparsa, con negozi di alimentari, ferramenta, casalinghi e panetteria.
Se avesse dovuto fare acquisti di prima necessità, quella, era la meta più comoda da raggiungere.
Matranca fu entusiasta di quella variazione al percorso: ricordava che all’ angolo della via, col corso Unione Sovietica, c’era un bar.
Avrebbe potuto avere un caffè e un tramezzino come Dio comandava.
A mostrare la foto della donna e fare le domande di rito, ormai, ci aveva preso la mano: in quaranta minuti avrebbero interrogato tutti i commercianti del mercato e visitato i negozi del posto.

La denunciante aveva una frequentazione abituale con la scomparsa, il loro era, in pratica, un appuntamento quotidiano per il lavoro e il resto.
Quando l’altra non si era presentata quel giorno, né in quelli successivi,
aveva pensato a un’ indisposizione, poi la Katić non aveva un telefono in casa, quindi non poteva chiamare per avvertirla.
I giorni erano cresciuti, però non ci aveva dato peso, perché l’amica ogni tanto si assentava, per cose sue, anche per dieci giorni. L’ unica differenza era che non avesse avvisato: ma, una dimenticanza o un impedimento ci poteva anche stare e non ci aveva badato.
Alla seconda settimana d’ assenza le era sorto il dubbio che qualcosa non andasse per il verso giusto: quindi si era mossa di conseguenza.
Inoltre, la Katić, aveva anche un figlio piccolo, il che, essendo priva di mezzi, rendeva la sparizione improvvisa assai strana.
Nel raccogliere la denuncia, l’ ufficiale di polizia giudiziaria, poiché la scomparsa era tossicomane, aveva avanzato l' idea che fosse rimasta vittima della sostanza consumata. Magari un grave malore occorsogli in un luogo nascosto e senza possibilità di chiedere aiuto
L’amica lo aveva escluso decisamente: entrambe, si rifornivano dallo stesso pusher da anni. Uno affidabile, che non avrebbe mai rifilato loro qualche porcata da spararsi in vena.
Poi la Katić non era una novizia del buco: sapeva regolarsi senza strafare e rischiare un fuori vena o un’overdose. Era tossica, ma, regolata. I suoi erano buchi di mantenimento, per non avere altri problemi oltre che il fegato intossicato. Si faceva nella giusta misura, quanto bastava per non andare in “carenza” e stare male come una bestia.
Escludeva, inoltre, problemi legati al mestiere: non erano legate al racket della prostituzione, lavoravano indipendenti, nessuna aveva un pappone a proteggerle.
Raramente battevano per strada, i clienti erano in maggior parte di un
giro fisso, consolidati con anni di attività. Tutti rispettabili e tranquilli: professionisti o padri di famiglia, nessuno spostato di testa o con fisime strane.
Li ricevevano in un condominio sul corso Traiano, un mini alloggio in affitto, condiviso con altre colleghe non tossiche.

Nonostante la loro lunga frequentazione, la Katić, sul suo indirizzo di casa, era quanto mai evasiva e riservata. Non l’ aveva mai invita a casa sua, neppure per prendere un caffè.
L’ altra, vedendo che la cosa non le era gradita, non era mai entrare in argomento: forse la donna, riteneva di avere una casa poco adatta a ricevere ospiti e se ne vergognava.
La denunciante, sapeva solo che diceva di vivere in un vecchio casolare, da qualche parte all’interno della zona detta “la jungla”: l’ area che si apprestavano a scandagliare a breve.
Anche del figlio, la Katić, non parlava mai. Generando il dubbio che il bambino avesse qualcosa di strano, o fosse affetto da qualche handicap da tenere nascosto.

Dall’anagrafe venivano poche informazioni: quelle sul paese d’origine,
l’ età e la registrazione di una residenza, mai rinnovata, risalente a cinque anni prima. Infatti, a quell’indirizzo non ci abitava più da anni.
“Insomma la Katić, pareva un fantasma” Pensava tra sé De Petris, mentre tentava di far uscire dall’abitacolo un calabrone grosso quanto un Agusta Bell-212, brandendo un mazzo di ordini di servizio arrotolati. “La slava, aveva zero relazioni sociali. Non filava nessuno fuori dal lavoro e nessuno, fuori da quello, si interessava a lei.”
In Italia, a partire del 1974, quando era stata istituita una banca dati nazionale, sulle denunce per persone scomparse, erano oltre trentamila. I ritrovamenti avvenuti intorno a diciottomila: dei dodicimila, restanti, non se ne sapeva più nulla.
La denuncia era stata ovviamente presa in carico, azionando le consuete procedure, ma, nulla poteva escludere che se ne fosse partita, armi, bagaglio e figlio, per motivi tutti suoi.
Si era deciso che quale che fosse il motivo della presunta sparizione, con di mezzo un minore, non poteva essere presa sottogamba, infatti l’allarme era stato diramato immediatamente a tutte le forze di Polizia, Carabinieri e dell’Interpol.

Magari, per lei, era stata una decisione improvvisa: una nuova occasione di vita e lavoro, in un luogo nuovo da cui ripartire e costruire una nuova esistenza, una proposta da accettare al volo, con urgenza. Così se n’era andata, senza avvisare alcuno, compresa l’ amica.
In sostanza era l’amica stessa, a confermare che non sembravano sussistere ipotesi di un concreto pericolo, per quell' assenza prolungata.
Mentre, con il solito rotolo, scacciava nugoli di mosconi, grossi come quaglie che entravano e uscivano a loro piacimento dalla macchina, De Petris, continuava a rimuginare silenzioso sui pochi dati a disposizione.
Matranca, intento alla guida e ignaro dei pensieri dell’altro, seguiva quella animata battaglia e commentò con aria esperta: - La senti ‘sta puzza di merda De Pè? E’ il letame di concime. Per questo ci sono tutte ‘ste cazzo di mosche. Fanculo alla campagna e pure agli ortolani.

De Petris, aveva deliberatamente scelto, di cercare notizie della donna, nei posti che frequentava fuori casa, o nei pressi della stessa.
Riteneva non prioritario iniziare dall’ abitazione, poiché pensava che, se se ne fosse andata di sua iniziativa, o per ragioni di forza maggiore, era più utile ottenere, eventuali, informazioni da chi l’aveva incontrata nel momento antecedente la sparizione.
Alla casa ci sarebbero comunque arrivati, quella non si muoveva di lì. Di certo era improbabile che al suo interno, avesse lasciato un biglietto che spiegava il motivo della partenza e la nuova destinazione.
Confidando che, da qualche parte, non saltasse fuori il suo cadavere con una “spada” infilzata nel braccio, pensava De Petris, si aprivano due ipotesi: quella che fosse a casa, viva e vegeta.
Quindi, in tal caso, con i loro giri di quella mattina, avrebbero solo buttato via del tempo e si sarebbero limitati a consigliarle di far sapere ai suoi conoscenti che era tutto ok e non si era mai mossa.
Oppure quella che a casa ci fosse, ma, morta. In tal caso la ricerca cessava e si doveva procedere col furgone carro funebre.

Quest’ultima era l’ ipotesi che De Petris meno si auspicava fin da quando avevano iniziato la ricerca: perché oltre a quel luttuosa epilogo, apriva l’angosciosa domanda sulla sorte del figlio.
Poteva, un bimbo, abbandonato accanto al cadavere della madre, sopravvivere per due settimane?
In quali condizioni lo avrebbero trovato, posto fosse ancora in vita?
Questo scenario nella sua sciagurata brutalità ne suggeriva, poi, uno fin peggiore, che cercava di cacciare ostinatamente dalla mente: quello di trovarli morti entrambi.
Per mano di un assassino, o di un omicidio-suicidio, motivato dalla disperazione. Un fatto di sangue in cui i giornali e i TG sarebbero stati ansiosi di sguazzare.
Ma tutto questo lo avrebbero affrontato dopo il sopralluogo della giungla nel pomeriggio.


(Continua)
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