Il seme dell’odio Pt.2

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Il segno dell’odio Pt.2


La casa era deserta, immersa nel silenzio e nel buio che la riempiva.
Il bambino, dormiva il suo sonno vigile, racchiuso nella stanza luminosa della sua mente.
Fuori, il vento faceva stormire le foglie, rami di un grande salice percuotevano con violenza, a ogni follata, le imposte sbarrate delle finestre sul muro della casa.
Poi il silenzio fu rotto da uno scatto metallico, al primo seguirono altri due giri di chiave, la serratura
dell’ uscio veniva aperta: il bambino uscì dalla stanza della sua mente e aprì gli occhi.
Alcuni passi concitati sulle vecchie tavole del pavimento, poi la luce della lampadina rossa si accese: lui capì che la donna chiamata madre era tornata.
Un brivido di terrore gli scosse il corpo.

Torino - Giugno 1985

La Pantera della Polizia, Alfa sud 1.300 super, era in servizio quella mattina col compito di settacciare il labirinto di anguste stradine, disegnato da una moltitudine di piccoli orti abusivi, nella zona di Torino sud, nell’ estrema periferia cittadina.
La pattuglia mobile, con alla guida l’agente Nicola Maria Matranca e l’ agente scelto Giulio De Petris, percorrevano Strada del Castello, con il sole del mattino in fronte e il plumbeo Mausoleo della Bela Rosin alle spalle. L’ edifico storico versava in totale stato di abbandono, divenendo meta di pusher, tossici e saltuariamente, di occasionali satanisti che, nottetempo, lo avevano scelto per le loro sulfuree pratiche.

Quegli orti erano una minuscola attività agricola, creata dai volenterosi pensionati del quartiere. Per lo più ex operai della vicina FIAT Mirafiori. Molti di loro, provenienti del meridione, avevano una radice contadina, con ancora qualche appezzamento di terra coltivabile al loro paese d’origine. Questa attività, a uso strettamente domestico, nasceva per dare un senso al molto tempo libero da colmare.
L’area, assai ampia, si stendeva al confine tra la città di Torino e il piccolo comune di Stupinigi: era in gran parte una distesa incolta di vegetazione, frammista a macchie boschive; con un terreno accidentato di dossi e avvallamenti.
Nelle parti interne era letteralmente invasa da una vegetazione fitta e selvaggia, con piante secolari e cespugli giganteschi di rovi e siepi
Il torrente Sangone, meta di gabbiani e ratti famelici, la solcava, con le sue acque torbide e le rive ingombre di rifiuti, gettandosi nel Po un chilometro più a sud.

La notte precedente c’era stato un temporale fuori stagione, ora la giornata appariva serena, il sole asciugava sui campi le pozze d’acqua residue e colmava l’aria di un vapore umidiccio. Nonostante i finestrini aperti, l’abitacolo dell’auto, priva di aria condizionata, iniziava a sfiorare climi da bagno turco.
I due agenti stavano in silenzio, il caldo umido, del primo mattino di metà giugno, rendeva l’aria cocente e il sudore incollava alle schiene le camicie d’ ordinanza in pesante cotone.
La radio di servizio ripeteva, in sordina, la cantilena delle segnalazioni d’intervento: non gli prestavano attenzione, il loro compito era già assegnato.
Erano in giro dalle sette del mattino. Matranca, infastidito per il sudore che gli disegnava una mezza luna scura sotto le ascelle, soffriva anche per il brontolio nello stomaco vuoto che solo un robusto tramezzino, avrebbe in parte alleviato.
Quella mattina erano partiti in ritardo e si era limitato alla ciofeca di un caffè, preso nel distributore automatico del Commissariato.
Ma De Petris, granitico, non pativa il caldo né la fame e non aveva alcuna intenzione di fare una sosta.
Matranca, aveva anche voglia di una sigaretta, ma quel cagacazzo di De Petris, capo pattuglia, era ligio al regolamento e poi non fumava, per cui, in servizio, manco a parlarne.

Erano alla ricerca di una donna scomparsa.
Si trattava di una tossicomane di origine slava, già segnalata come prostituta non abituale: in sostanza la dava via per pagarsi le dosi di roba e il sostentamento.
La sparizione era stata denunciata da una sua conoscente: altra prostituta e tossica; allarmata per quell'assenza, ormai protratta da due settimane.
Pare si conoscessero da anni: un rapporto saldato dalla comune dipendenza che le aveva condotte a esercitare lo stesso mestiere.
Considerato che il tempo utile, per segnalare la scomparsa di una persona, era indicata nelle prime settantadue ore, l' idea di ritrovarla a breve appariva remota.
La donna scomparsa rispondeva al nome di Vesna Katić, proveniva dalla ex Jugoslavia: la foto, fornita dall' amica, risaliva a qualche anno prima; quando era stata scattata non doveva avere più di ventidue anni.
Nella copia fotostatica, sul portafoto del cruscotto dell’Alfa, la Vesna Katić, appariva come una giovane donna, una bellezza dell’est, capelli neri e occhi di smeraldo; con uno sguardo assente, mentre osservava un qualcosa lontano, fuori dallo scatto.
Nelle ultime tre ore l’avevano mostrata, senza successo, a diversi pensionati riconvertiti al lavoro agricolo, trovati negli orti che costeggiavano Strada Del Castello.
Quella era una delle poche vie periferiche su cui stazionavano prostitute, anche in ore diurne.

Passare al setaccio, come avevano fatto, quell’ intrico di stradine e orti di fortuna e interrogare una ventina degli anziani, era stato un lavoro faticoso e di totale inutilità.
Si erano però fatti una cultura sulla creatività applicata all’ impiego di ogni sorta di materiali di recupero. Come laboriose formiche, avevano raccattato roba da riciclare per le loro edificazioni.
Avevano, infatti, cintati quei minuscoli poderi con scarti di lamiera ondulata rugginosa, tavole di vecchio truciolare, pannelli di panforte e laterizi di scarto di qualche cantiere.
Erigendo staccionate e alte murature, pergolati, tettoie, dotando ogni orto di piccole baracche, arredandole con seggiole pieghevoli e tavolini da spiaggia, dove fermarsi a consumare il pasto frugale di metà giornata. Molti si erano dotati anche di sdraie, per schiacciare una penica, nella digestione del primo pomeriggio.

Solo qualcuno di loro, diceva di rammentare un volto somigliante, stazionare ogni tanto sulla via, ma, se ne vedevano diverse, anche per brevi periodi. Facce che non s’imprimevano nella mente: “Poi queste slave sono carine, ma, si somigliano tutte.”, aggiungevano scuotendo il capo.
Del resto, nessuno avrebbe confermato di aver conosciuto una giovane prostituta; posto che le magre pensioni consentissero quel genere di svago, in alternativa alla quotidiana fatica agricola.
Non ne era venuto niente di utile da quei colloqui: svoltarono in direzione del tratto che separava i due comuni.
La prossima tappa prevedeva una visita al campo nomade che sorgeva quasi al fondo del corso Unione Sovietica: poco prima dello snodo per immettersi sulla tangenziale che portava all’ autostrada Torino-Piacenza.
Nel pomeriggio avrebbero affrontato la perlustrazione della “jungla”: la parte più impegnativa di quella sfacchinata.
Il concetto di “jungla” ben si adattava a descrivere quel tratto di territorio, al suo interno, vi erano stradine e sentieri nascosti, immersi in una natura incolta e non percorribili in auto.
Vi si trovavano alcune rovine di case rurali abbandonate da tempi memorabili: per lo più resti murari col tetto franato, aggrediti dalle intemperie e dalle muffe, coperti di rampicanti e rovi.
Qualche edificio, in quella giungla, pur in condizioni di profondo degrado, era rimasto in piedi: divenendo rifugio di sbandati, barboni o luogo d'incontro con i clienti per le prostitute che stazionavano sul lungo corso che conduceva a Stupinigi. Loro i soli esperti del luogo e in grado di orientarsi in quell’ inestricabile selva di: biancospino, gramigna, viburno, ligustro e piante ad alto fusto, come faggi, sambuco, ontani e aceri campestri.
Una vera oasi naturalistica per la gioia di studiosi di botanica ed entomologi, per la varietà degli insetti, nonché di erpetologi per le bisce e qualche vipera presenti ne sottobosco.

(Continua)
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