Anna del bar Pt.4

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Anna del bar Pt.4

Dal mio primo debutto al gioco del flipper era trascorso un mese, nel frattempo mi ero scervellato sul come risolvere il problema di avere una carta d’ identità da quattordicenne che mi abilitasse all’uso del biliardino elettrico.
Problema non da poco, poiché avendo solo dodici anni, l’ ostacolo era, a dir poco, insormontabile.
C’era poco da stare a pensarci: per entrarne in possesso dovevo nascere prima o attendere regolarmente due anni.
Non si trattava solo di rinunciare a quel divertente passatempo elettrico, ma sfumava anche la scusa per frequentare il bar ogni volta che avevo desiderio di vedere Anna.
Mica potevo andare a comprarci coni gelato a gennaio, del resto ero troppo piccolo per chiedere un caffè al banco o prendere un aperitivo.

Cosa ancora più grave era che, non vedendomi più a giocare al flipper, lei avrebbe potuto sospettare che rinunciavo per l’ impossibilità di mostrarle la carta d’identità come promesso, per la semplice regione che non la possedevo.
Quindi ne avrebbe ricavato che avessi mentito su l’ età: proprio come un qualsiasi moccioso di dodici anni che voleva apparire più grande di quanto fosse.
Apparire bugiardo ai suoi occhi, era la più grossa sciagura che mi potesse capitare: la cosa era seria, anzi drammatica. Ero depresso, non vedevo vie d’uscita alla mia misera figura di cacca.
Per evitare di incontrare Anna e le domande sulla mia sparizione, evitavo di passare davanti alle vetrine del suo locale: nella necessità di raggiungere il fondo della via, compievo la circumnavigazione dell’ isolato aggirando l’ostacolo.

Quando avevo perso la speranza di trovare uno straccio di rimedio, il fato mi venne incontro offrendomi una inaspettata soluzione.
Fu colto da un’ intuizione geniale, che per quanto potesse apparire macchinosa, era sicuramente attuabile.
Il tutto avvenne grazie a una confezione di Aspirina: questo fecce crescere di molto il mio apprezzamento e la gratitudine verso la Bayer farmaceutica per averla concepita.
Mia madre ogni tanto soffriva di emicrania: l’ Aspirina le donava giovamento: un pomeriggio mi spedì alla vicina farmacia, sulla via Sacchi, per acquistarle una confezione del farmaco.
Mentre stavo in coda, nell’  attesa d’ essere servito, notai, su un dispenser a colonna, diverse confezioni di fasce elastiche destinate a svariati usi terapeutici: erano dei tutori ortopedici.
Su ogni contenitore era stampata l’ immagine del prodotto nella sua applicazione d’ impiego: Fui subito attratto da quella che presentava un tutore per la mano.
Lessi le indicazioni a commento del prodotto scritti sulla scatola: “Polsiera ambidestra con supporto pollice e chiusura in velcro, ideale per tendiniti e dolori traumatici. Realizzata in tessuto termodinamico a tre strati...ecc."
Con velocità fulminea i miei neuroni elaborarono la strategia che mi avrebbe condotto fuori dal “cul de sac" in cui mi ero ficcato: ero al settimo cielo, avrei salvato faccia e onore.
Sarei tornato da Anna con uno di quei cosi che mi bendava la mano: avrei raccontato che mi ero infortunato, quindi a causa della dolorosa contusione non potevo usare la mano.
Era palese la necessità di entrambi gli organi in perfetta efficienza per giocare al flipper: quindi niente gioco, niente documento d’identità da mostrare. Era fatta!

Entrai in uno stato di esaltazione: l’idea di aver risolto quel casino mi inebbriava: con slancio creativo aggiunsi le tessere mancanti a completare l’audace, ingegnoso disegno finale.
Da un po’ di tempo, infatti, praticavo da autodidatta il Karate: mi ero procurato un libriccino ad hoc che illustrava gli esercizi base per le tecniche di formazione e combattimento.
Oltre a utili attività ginniche, vi era l’esercizio che più solleticava la fantasia di molti giovani appassionati d’ arti marziali come me: ovvero quello per giungere all’ attuazione del colpo chiamato: “Shutò”.
Si trattava di quello portato col taglio della mano a sciabola, che con la potenza fatale di un’ascia spezzava la materia più impenetrabile.
Era uno dei colpi utilizzati nel karate per rompere tavolette di legno: per molto tempo è stato, nei film, il colpo identificativo se si voleva rappresentare un karateka.
Orbene, avrei raccontato che, esercitandomi a quel colpo, non mi ero  limitato, a spezzare una unica tavoletta, ma ne avevo sovrapposte ben quattro, pensando di essere pronto a misurami con quella difficoltà.
Avevo solo sferrato il colpo senza la dovuta concentrazione: elemento fondamentale per compiere qual’ esercizio. La dottrina Zen che è alla base di ogni arte marziale di radice orientale, narra che prima della mano deve essere la mente a compiere il gesto: come per l’arciere che scaglia la freccia, il centro del bersaglio deve avvenire nella mente di chi la scaglia, prima che la freccia lo colpisca.

Nella mia fretta di giungere al risultato, avevo trascurato questo radicale precetto, pertanto il colpo aveva perso la sua implacabile efficacia e io mi ero quasi spezzato l’osso metacarpale in prossimità della falange del mignolo. Come avevo potuto appurare, consultando la piccola Enciclopedia Medico-Scientifica che avevamo in casa, è noto che, anatomicamente, il mignolo è in diretta interazione col nervo ulnare che innerva la cute palmare e dorsale del dito stesso.
Pertanto quando si subiva un trauma quella zona, oltre che procurare un male cane, interessando nel dolore nevralgico anche il braccio fino
alla spalla, si inficiava l’uso della mano per lungo tempo.
Capperi! Ero a cavallo. Indossando quel tutore sulla mano e con un foulard legato al collo, per sostenere l’avambraccio, potevo inscenare un incidente sportivo di una certa rilevanza.
Avrei raccontato la storia dell’esercizio avventato, guadagnando anche il fascino dell’ iniziato alle arti marziali, avrei accusato il persistere di un dolore che mi impediva l’uso della mano e avrei mostrato la fascia elastica prescritta dall’ ortopedico.
Anna al vedermi in quelle condizioni si sarebbe intenerita e profusa in premure e gentilezza, certo, magari mi avrebbe un po’ sgridato per aver esagerato con l’ esercizio troppo duro, ma avrebbe compreso e ammirato lo spirito agonistico che mi animava.
Avrei continuato a frequentare il bar e a vederla quando lo desideravo, senza obbligo di giocare al flipper o di mostrarle il documento d’identità, una vera pacchia.
La cosa formidabile era che quella bardatura risultava essere assai poco ingombrante, infatti dopo gli incontri con lei, potevo piegare e riporre in tasca il tutto, anche a casa sarebbe stato facile imboscare l’armamentario sotto il materasso del mio letto.

Anche quel coglione con la moto grossa che le stava dietro al bar, diceva di praticare il karatè, cosa di cui dubitavo, perché gli avevo visto le mani: quelle non erano mani da karateka, non c’era l’ombra di un callo nei punti in cui l’allenamento li formava.
Lo sapevo perché ogni giorno mi allenavo a tuffare le mani, strette a paletta, in un secchio di sabbia e fine ghiaino che tenevo in cortile, infatti, le mie mani, dopo due mesi di pratica avevano indurito la pelle.
Non solo, mi ero costruito un “makiwara” (da "maku", rotolo, composto da una tavola di legno avvolta da una corda di "wara", paglia), fissato al muro all'altezza del torace. Durante l'addestramento, la colpivo con pugni, calci e taglio della mano: per allenare gli arti al combattimento e sviluppare potenza e velocità nelle tecniche di attacco.
Tutti questi esecizi facevano parte delle pratiche dette: “tameshiwari” che comprendevano la famosa rottura di tavolette in di legno.

Il coglionazzo, aveva mani da fighetto: lunghe, lisce e bianche.
L’unico sport che praticava, secondo me, era di menarsi il fagiolo che teneva tra le gambe, altro che karatè.
Quando avrei raggiunto i quindici o i sedici anni, sarei stato più alto e ben piazzato, con una tecnica di combattimento avanzata, allora una lezione di karatè gliela avrei data volentieri: lo avrei spolverato come un tappetino. Gli sarebbe scesa la cresta e quell’ aria di spocchiosa supponenza.

(Continua)
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