La finestra - Pt.2

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- Breve richiamo riassuntivo per nuovi lettori da “La finestra Pt.1“: -

( “Quando uno dei giovani del mio staff,................... rientrò trafelato urlando: “Raga, venite! Al terzo piano del secondo palazzo di fronte, c’è una gnocca, con due tette così, che si spoglia dietro alla finestra”. )

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La finestra - Pt.2

A dare quel vivace annuncio era stato il più giovane dei grafici del mio studio: il ventenne occhialuto Paolini.
Tutti alzammo la testa dal lavoro, gli sguardi passarono dalla sorpresa alla scettica incredulità.
Nessuno si mosse, ma nella sua direzione partì in coro di commenti ironici e feroci: “Azzo! Non vedi una figa da tanto di quel tempo che iniziano le visioni”, oppure: “Smettila con le canne, che ti allucinano già di prima mattina” e ancora: “Cambia occhiali Paolini che se continui a farti le pippe diventi cieco o vedi donne nude pure sul tram."
Paolini, stizzito per quell’ incredulità offensiva replicò: “Siete degli sfigati e ancora parlate. Andate fuori voi, poi mi dite se ho le visioni o no. Anzi, andate a fare in culo!”
Con riluttanza si mossero in tre: uscirono sulla via a scandagliare la finestra indicata da Paolini.
Tornarono ridendo sguaiatamente e scuotendo la testa, si davano di gomito con complicità: “Paolini, pipparolo, ti sei scemunito! Non c’è nulla a quella finestra. Che ti sei bevuto ieri sera?”
Paolini era confuso, ma non ce ne stava a passare per visionario: “Non dite cazzate. Sarà andata dentro, magari col casino che avete fatto, vi ha visti arrivare e si è eclissata. Poi sono mesi che bevo solo minerale e non tocco “erba”, siete degli stronzi”
Ripresero il lavoro continuando a battibeccarsi per mezzora, poi la cosa si esaurì e dell’ episodio, dopo quella mattina, non sì parlò più.

Amavo giungere in ufficio almeno un’ora prima ogni mattino, mi piaceva farmi un caffè in pace e riordinare le idee sul lavoro della giornata, in anticipo sull’ arrivo dei ragazzi.
Quella mattina, verso le sette e mezza, come ogni giorno, percorrevo la via costeggiante la strada ferrata che conduceva all’ edificio aziendale per raggiungere il parcheggio posto al primo piano della ditta.
Per tutto il tempo in cui avevo lavorato in quel posto non avevo mai prestato attenzione alle case oltre la ferrovia, né mai vi era stata ragione che risvegliasse il mio interesse a farlo.
Ma, da quel curioso fatto di Paolini, confesso che, nel percorrere la strada, un occhio al terzo piano del palazzo in questione mi sfuggiva ogni mattina.

Nelle due settimane successive non era accaduto nulla, pertanto avevo già archiviato la cosa con la spunta: “fantasiosa leggenda metropolitana”.
Giungere al luogo di lavoro era a quell’ ora del mattino un vero supplizio: il traffico scorreva denso come catrame, con una lentezza soporifera.
Per ridestarmi dal torpore del percorso, complice quel breve tratto di via deserta, ero solito scatenare i 155 cavalli della mia Croma Turbo IE: col piede a tavoletta davo gas alla belva meccanica e toccavo i 100 kmh in otto secondi e rotti. La cosa mi donava una vigorosa sferzata di adrenalina.
Mi fermai prima di affrontare la rampa che conduceva al parcheggio sul tetto dell’azienda: detti mano al telecomando per alzare la barra metallica posta sull’ accesso.

Nel tempo che l’asta compisse la sua ascesa, dando le spalle alla ferrovia, mi cascò l’occhio sullo specchietto retrovisore: fu in quel momento che vidi le tende, alla finestra del terzo piano, scostarsi lentamente.
Mente e occhi furono catturati con violenza: “Vuoi vedere che Paolini è meno sciroccato di quanto si creda?”, pensai.
Spensi il motore e sistemai lo specchietto retrovisore per una visione più efficiente e comoda.
Guardai l’orologio sul cruscotto: mancava un quarto d’ora alle otto, quindi avevo ancora più di mezzora a disponibile, prima che arrivassero altri dell’azienda.
I minuti presero a scorrere, dilatati dall’ impazienza di accertare quanto ci fosse di vero in quella incredibile storia.
Mi accesi una sigaretta per ingannare l’attesa.

Dopo dieci minuti, la sigaretta giaceva come mozzicone spento nel posacenere dell’auto, ma la finestra non dava segno di presenze.
Con un residuo di senno esaminai con realismo la situazione: un giovane manager in carriera, stava fermo in auto a fissare nascostamente una finestra, nella quale al momento si erano unicamente aperte delle tende.
Obiettivamente la cosa era, in sé, più che normale e insignificante.
Quante tende a quell’ ora venivano aperte? In quante decine di migliaia di case, quel gesto apparteneva alle rituali azioni di ogni primo mattino?
Ciò nonostante ero lì, in attesa che una fantomatica donna, alla finestra del terzo piano di un condominio popolare, si denudasse per mostrare le proprie grazie a un trentenne che si era scoperta una ambigua vocazione di voyeur.
Bisognava essere spostati il giusto per credere che una cosa simile avvenisse davanti a due vie che, benché poco frequentate di traffico, non davano certo l’ idea di luogo ideale per una simile esibizione che consigliava discrezione e un numero circoscritto di occhi e pubblico.
Sarebbe stato inverosimile che una donna, dopo essersi prodotta in quello spettacolo, poi scendesse a fare la spesa sotto casa o a prendere un caffè nel bar della via adiacente: infischiandosene se tutti la conoscevano.
Il tutto aveva del fantasioso e dell’improbabile: una storia da filmetto porno-soft di serie B, confezionato per gli appetiti erotici della massa di assatanati che ghermiva le neonate sale a luci rosse, o la programmazione TV delle tarde ore notturne.

Provai un fremito di profonda pena per me stesso e per quanto che stavo facendo, la barra d’accesso al parcheggio era da tempo tornata alla sua posizione orizzontale: sembrava guardarmi con silente deplorazione.
Tornai alla realtà e alla coscienza della miseranda condotta a cui mi stavo abbandonando.
Riaccesi il motore dell’auto e attivai nuovamente l’apertura della barra, deciso seriamente a muovermi, ma gli occhi continuavano non si staccarsi dal retrovisore.
Cazzo! Fu un flash improvviso. Si era affacciata ai vetri ed era scomparsa nuovamente, era stata un’apparizione fugace, ma indubbiamente non l’avevo sognata: in quella casa abitava una donna e questo era reale.
Aveva un viso giovane con una cascata di capelli bruni sulle spalle: chiaro che questo non provava nulla sul resto della storia, ma era comunque un indizio concreto, non un miraggio o un inganno dei sensi.

Ormai la mia pessima figura con l’autostima l’avevo fatta: accertato che fossi un potenziale guardone, forse valeva la pena di andare a fondo di questo oscuro angolo del mio carattere.
A quel punto, perdere dieci minuti in più o in meno, non mi avrebbero cambiato in meglio, ma quantomeno non avrei lasciato qualcosa in sospeso: spensi ancora il motore e accesi un’altra sigaretta, mi sarei fermato solo per il tempo di fumarla.
Ero già oltre la metà della cicca, una crescente frustrazione per l’ attesa si univa al senso di colpa: quanto tempo buttato.
Mi chiesi cosa avrebbero pensato i miei giovani di bottega, dai quali ero stimato per la mia competenza e paterna autorevolezza, sapendomi in quella macchina ad attendere un improbabile spogliarello?
Cosa avrebbero detto l’ AD e il presidente dell’azienda che mi avevano messo a capo della mia struttura? Cosa avrebbe urlato mia moglie, venendo a conoscenza della cosa, dopo undici anni di matrimonio? L’ unica fortuna era che mia figlia avesse solo dieci anni, almeno lei sarebbe stata all’ oscuro di tutto, senza sapere che razza di uomo fosse suo padre.

Questi pensieri mi angosciavano e facevano crescere l’impulso a fuggire da quelle possibili, umilianti, vergogne.
Ma, qualcosa si mosse: un movimento indistinto, come una sagoma che stesse ponendo qualcosa sotto la finestra.
Trattenni il fiato, forse qualcosa finalmente accadeva: l’ultima boccata di fumo aspirata mi andò di traverso facendomi esplodere in una tosse convulsa.

(Continua)
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