La Sampo Pt. 15

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La Sampo Pt. 15

Questa era una vera scena madre.
Abbandonata di traverso sul mio letto: gli occhi coperti dall’ avambraccio,
le mutandine calate e il cespuglio ricciuto della topa in bella vista.
Mentre un respiro ansioso le gonfiava il petto, facendo oscillare le prosperose tette.
Pareva una vergine in odor di santità, che occultava pudica il volto e la vista, lasciando il corpo alla mercé dello stupratore, difendendo con la preghiera e la forza della fede almeno la purezza dell’ anima, se non quella del corpo
Mi venne da ridere. Era una forza della natura ‘sta ragazza, avrebbe dovuto buttarsi nella carriera teatrale anziché iscriversi a Matematica.
Era un’ interprete di temperamento, dotata di qualità recitative da surclassare la Proclemer.

- Dai, tirati su ‘ste mutande: penserai mica di farmelo rizzare con cinque minuti di chiacchiere, dopo che me l’ hai ammosciato per quasi due anni.
Mi sorpresi di me stesso: alla bisogna sapevo anche essere velenoso come un serpe.
Si ricompose in silenzio, con un’ espressione stizzita e frustrata.
- Vuoi un caffè? - Le chiesi con garrula cortesia.
- Sì. Grazie! Ne ho bisogno.
“Ci credo bene.” pensai mentalmente.
Mentre sorbivamo le bevande, scambiammo pochissime parole, l’aria non era quella che induceva alla leggerezza della conversazione.
- Lara mi ha detto che tu e Giulio avete messo su una specie di gruppo e suonate insieme. disse a un certo punto.
- Sì, vero. Nulla di che, si suonicchia e ci si diverte un po’.
Annuì con la testa, mentre terminava di bere il suo caffè.
- Che figata! Avete fatto bene. So che avete anche una cantante.
- Sì. Ti avrà detto Lara: si chiama Arianna, una nostra compagna di scuola. Bella voce.
- Sì. Lo so chi questa Arianna. - fece una pausa poi aggiunse: - Era quella che vi facevate insieme tu e Giulio. Sapevo che fosse zoccola, ma ignoravo che cantasse.
- Ambè! - risposi - Si vede che le zoccole sono tutte più intonate.
- Che stronzo sei! Dicevo per dire. - accusò la stilettata.
Posò la tazzina e chiese: - Mi offri una sigaretta?
Gliela porsi dal pacchetto e le detti da accendere. Iniziò a fare qualche boccata, facendo vagare lo sguardo per la stanza.
- Sai, Ci sono rimasta male perché non mi avete chiamata. Lo sapete tutti e due che canto bene.
- Sì che lo sappiamo. Per conto mio direi che canti divinamente.
- Appunto. Allora perché non mi avete scelta?
- Eh. Che posso dirti: è vero che canti da Dio, però non le fa le “batterie”: quindi abbiamo scelto lei per andare sul sicuro.
- Mavvafanculo! Le “batterie” te le fai con tua sorella e con quella zoccola che vi siete caricati. Io le “batterie” non le ho mai fatte.
- Eh, lo so. Hai i tuoi principi: fossero in dieci, ma rigorosamente uno alla volta, non ami la confusione.
- Sei proprio una merda lo sai? Sei più acido di un limone marcio. Non ti ricordavo così, altrimenti non sarei venuta.
- Oggesù! Mica ti sarai offesa? Che poi tu dia della zoccola ad Arianna, mi fa venire in mente quella storiella del bue e dell’asino.
- Ma che bastardo sei! E’ questo che pensi di me?
- Ma no, dai. Lo so che a Santa Maria Goretti, gli spicci casa.
- Basta! Non son venuta per farmi insultare. Me ne vado.
- Di già? Pensavo volessi fermarti a pernottare. - dissi, muovendomi verso l’uscio dalla stanza.
Lei si alzò e mi seguì a testa bassa: una nuvola di frustrazione le circondava il capo.
- Ancora una cosa - disse: - Devi lasciarmi guardare per l’ ultima volta questa casa, in cui ho vissuto momenti felici.
- Ma prego: fa come se fossi a casa tua.
Partendo dalla mia camera si portò, lemme, lemme, all’ interno del salotto.
La vidi sfiorare i cuscini del divano e le spalliere delle poltrone, fermarsi in religioso silenzio nella contemplazione del TV color e dell’orologio a muro col planisfero, sembrava pregasse d’ innanzi a un sacrario.
Accesi una sigaretta nell’ attesa che il rito avesse termine.
Poi uscì e si diresse al tinello con annesso angolo cottura, anche qui si attardò davanti alla doppia anta a vetri che dava sul balcone e restò qualche intenso momento a osservare i coppi sui tetti dell’esterno.
Mi ripassò davanti per buttare una rapida occhiata all’ interno della cameretta di mia sorella. Le dedicò minore attenzione, forse perché lì dentro non ci avevamo mai fatte le cose zozze delle nostre numerose mattinate di passione.
Tornò sui suo passi e aprì la porta della camera da letto dei miei. Passò in rassegna il lettone matrimoniale e l’armadio a sei stagioni, la porta del balcone al fondo della stanza era munita di due corpose tende con mantovana, le scostò per rimirare la grigia moderna struttura della sede regionale dell’ ASL che impreziosiva la nostra via.
Ricordava Eleonora Duse in una delle sue celebri scene del film muto, in cui si aggrappava a un tendaggio nei fatali istanti della sua morte.
Naturalmente non morì, ma tornò nell’ ingresso.
Spensi la ciccia nel posacenere sulla mensola di metà corridoio e chiesi:
- Finito?
- Sì. - rispose assorta nella sua pena.
- Sicura? - replicai.
- Sì. Visto tutto, perché?
- Mi pare che hai scordato la stanza da bagno, anche lì qualche momento distensivo ricordo che lo hai trascorso.
Lo sguardo le divenne torvo, avvampò sul volto, stizzita si voltò, inforcò l’uscio e si dileguò lungo le scale.
Non mi aveva neppure salutato: “Che maleducata”, pensai.

Il giorno dopo l’ Epifania era una domenica: stavo meglio, ma mi sentivo ancora sbattutto come un tappettino, debolezza e ossa rotte. Era in ogni caso un’ ottima cosa avere ancora un giorno festivo per chi doveva tornare al lavoro o a scuola, dopo le vacanze natalizie.
Per me era indifferente, tanto non sarei rientrato al liceo il giorno appresso: non potevo certo farmi vedere con la faccia gonfia come un uovo di pasqua. Avevo già deciso di fermarmi a casa per il resto della settimana.
Con antibiotici e antinfiammatori, già potevo vedere una lieve riduzione del turgore, il dolore era sparito e tornavo ad aprire la bocca abbastanza agevolmente.
Ero felice che queste cacchio di vacanze fossero finite, sicuramente Sampo era già in viaggio sulla via del ritorno.
Non stavo nella pelle all’ idea di risentirla, ovvio che preferissi aspettare d’essere più presentabile prima del nostro incontro: per un paio di giorni avremo potuto fare lunghe chiacchierate al telefono prima che le scattasse il coprifuoco serale. Ci saremo raccontati delle ultime due settimane, non le avrei detto di aver avuto la faccia gonfia come un plenilunio, ma avrei parlato di una forte influenza: contavo infatti di veder ridurre di molto il mio ascesso prima di metà settimana. Le avrei chiesto di venirmi a trovare intorno al prossimo mercoledì, per l’occasione mi sarei sbarbato della peluria caprina di una settimana e mi sarei lustrato come l’argenteria per i pranzi importanti.
Avevo pronto il pacchetto regalo con la sciarpina e l’anellino indiani da donargli ed ero sicuro che li avrebbe graditi moltissimo.

Era il secondo giorno, dal nostro ultimo incontro, che Giulio non si faceva sentire. Il pisquano si era eclissato. Mi si rafforzava il dubbio che alla fine non avesse avuto il coraggio di affrontare il confronto con Lara. Forse non si era fatto vivo perchè si vergognava a confessarmi di non avercela fatta a dirle che era finita.
Verso le otto di sera squillò il telefono, senza alzarmi dal letto, dalla diramazione della linea telefonica sul comodino della mia camera, presi la telefonata.
Probabile fosse Giulio che chiamava per fugare ogni mio dubbio malevolo, benché in cuor mio sperassi ardentemente che, Sampo, giunta a casa, avesse eluso il veto dei suoi per chiamarmi a quell’ ora.
Ma rimasi deluso appena sollevai la cornetta: a chiamarmi  non erano nessuno dei due. Dall’ altro capo del filo udì l’inconfondibile voce di Lara.

- Ciao, sei tu? - chiese nell’ udire la mia voce.
- Sì, sono io. Ciao Lara, buon anno. Come stai?
- Buon anno. Scusami se ti disturbo a quest’ora.
- Ma figurati. Qual buon vento, hai bisogno di qualcosa?
Fece una pausa, poi con un tono d’apprensione nella voce proseguì.
- Sì. Scusami davvero, ma hai per caso sentito Giulio ieri o oggi?



(Continua)
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