La Sampo Pt. 14

1
viewtopic.php?f=8&t=1569&p=13888#p13888



La Sampo Pt. 14

Restai sveglio fino alla mezzanotte, dalla finestra guardai il cielo farsi nero e grossi fiocchi di neve riprendere a imbiancare le strade, ma Giulio non venne.
Ne rimasi un po’ deluso: ci avevo sperato. Non tanto per l’idea di farci lo spino insieme, ma perché mi sarebbe piaciuto passarci la serata come facevamo ai tempi in cui stavamo nella stessa scuola e nella stessa classe.
A ripensarci ne avevo nostalgia: il mio cambio di sede, in seguito alla cacciata subita alla fine del secondo anno, per la mia pessima condotta scolastica, ci aveva allontanato da quella consuetudine.
Non che avessimo rinunciato a sentirci sovente, ma per forza di cose, il non essere più nello stesso istituto aveva cambiato le nostre vite: avevamo impegni diversi e ci si sentiva più al telefono che di persona.

Sicuramente non era riuscito a trovare il “fumo” da Ciano, il nostro pusher scolastico: di fisso quello sguandrato aveva già smerciato tutto il prodotto prima d’inizio festività, azzerando le scorte di magazzino.
Di certo se ne era andato a spendersi il guadagno in qualche posto vacanziero montano, oppure si era fiondato ad Amsterdam, per prendere i classici due piccioni con una fava. Farsi un viaggio di piacere nella Venezia del nord, passarsi metà del tempo nel quartiere a luci rosse De Wallen, per lustrarsi gli occhi davanti alle vetrine che ospitavano le gnocche olandesi dedite alla professione più antica del mondo, l’altra metà a stonarsi di fumo e roba, nei coffee shops dello sballo. 
L’altra utilità era di ordine pratico: acquistare direttamente, senza passare dal grossista, lo shit e le pasticche di acido da rivendere con un ricarico
vantaggioso, senza passare da intermediari.

Probabile che Giulio avesse deciso di andare da Lara, dove non avrebbe certo avuta una serata serena da trascorrere. Se era così significava che fosse giunto il loro momento dei chiarimenti, dove decidere cosa farne della loro storia di due anni.
Nel caso, non invidiavo la sua situazione: se per debolezza non se la fosse sentita di parlare chiaro e dirle addio, avrebbe dovuto continuare a vivere quella relazione come una condanna penale, ormai esaurita dell’amore che l’aveva fatta vivere.
Se invece avesse avuto la forza di dirle che era finita, si sarebbe aperta la immancabile sequenza di domande, di recriminazioni, di accuse reciproche, di contumelie e le  inevitabili lacrime.
Sarebbe stata una vera serata di paranoia. Non c’era proprio da invidiarlo, il povero fratello mio.

Il giorno seguente era l’ Epifania, la febbre era scesa, la faccia restava gonfia, ma era rimasto un fastidioso formicolio e la difficoltà ad aprire la bocca.
Come da tradizione per mia sorellina e per me ci fu la solita calza piena di giandujotti e caramelle assortite. Nonostante non fossi più esattamente nell’ età da ricevere il dono della Befana, mia madre avrebbe continuato a farmi trovare la calza di dolciumi anche se fossi stato sotto quel tetto all’ età di quarant’ anni.
Per il mio ascesso, la sola visione di quei dolci, appariva gradita come un secchio di Kriptonite verde regalata a Superman.
Già a guardarli mi pareva che il dolore della carie si riproponesse minaccioso: non ne avrei potuto assaggiare niente di quella calza prima di un mese.
Con grande fatica e precauzione nel masticare col lato sano della bocca, riuscì almeno a nutrirmi con qualcosa di solido, dopo giorni di pappette  insipienti.
Nulla di molto sostanzioso, ma un po’ di formaggio morbido, del pane in cassetta e una banana, che mi parvero un vero banchetto di nozze.

Giulio non si era sentito per tutto il giorno, mi sarebbe piaciuto sapere come aveva risolto le cose con Lara: non perché nutrissi un morboso interesse a conoscere i cazzi loro, ma perché sentivo una sorta di ansia empatica nel saperlo immerso in un casino come quello.
Ogni fine di una storia aveva risvolti difficili: grandi sensi di colpa che ti aggredivano quando a rompere la relazione eri tu, mentre la parte abbandonata si tormentava per il vile tradimento.
Anche se lui non gli avesse detto della Ceretti, Lara non l’avrebbe presa comunque bene: essere lasciati non piace a nessuno.
Per ma con Nella, almeno in quello ero stato fortunato.
Vero che l’avevo lasciata io, ma con formula di “giusta causa”.
Con lei le cose furono chiare: faceva pompini in macchina al suo ex e l’avevo beccata in fragrante, pertanto ero parte lesa e in pieno diritto di mandarla a cagare.
Il tutto era stato doloroso ma chiaro e pulito come un colpo di rasoio: ci avevo speso una sola parola: “Puttana!”, prima di voltarmi e andarmene per sempre.

La rividi dopo due mesi e mezzo. Un pomeriggi che ero solo in casa, il campanello della porta suonò timidamente: me la trovai davanti con l’aria mesta di chi viene a portare le condoglianze per un morto della famiglia.
Chiese di entrare: ovviamente glielo permisi, a testa bassa si diresse verso la mia stanza, le seguì perplesso, non mi aspettavo che trovasse il coraggio di farsi rivedere.
Sedette sul mio letto, io restai in piedi sulla soglia della camera, mi appoggiai allo stipite e la guardai con espressione interrogativa.
- Ciao. - esordì a mezza voce - Come stai?
- Benissimo. - risposi con tono cordiale e risolutivo.
Abbasso lo sguardo e respirò a fondo cercando le parole.
- Ti chiederai perché sono qui? - proseguì dimessa.
- Boh? Per la verità no. Comunque, che cazzo ci sei venuta a fare? - risposi con una certa sufficienza.
- Ecco, io ci ho pensato. E sono davvero convinta di aver sbagliato molto.
Sorrisi, già immaginavo cosa sarebbe seguito.
- Ma dai. Dici davvero. Ci hai pensato molto?
- Sì. Amore, mi sento molto in colpa. E’ stata una cosa grave, un colpo di testa.
- Vabbè, grave. Che vuoi che sia, più che un colpo di testa, direi un gran movimento di testa: per via dei pompini fatti in macchina a quello stronzo.
- Sì. Hai ragione è uno stronzo. Sai che da allora non si è fatto più vedere?
- Oh! Povera. Privarti così dello svago della domenica mattina. Ora ti toccaherà toranare ad andare a messa. Ne hai parlato col tuo confessore?
Non rispose, ma la faccia mostrava di non gradire l’ironia.
- Lo so, non mi hai perdonata: hai ragione ad avercela ancora con me. Ma credimi sono davvero pentita. Ti penso ancora e i miei sentimenti non sono cambiati. Ma capisco che tu sia ancora offeso.
Aveva l’espressione accorata e tragica di una martire cristiana che perdonava i suoi carnefici, mentre veniva condotta al martirio.
Appariva addirittura sofferente e sincera. Era la sua specialità.
- Ma no dai. Non starci più a pensare. Io non sono più in collera, quello che è stato, è stato. Ora possiamo guardarci con serena indifferenza.
- Grazie amore, lo so che tu sei comprensivo. Anche io non te ne voglio per quella sberla che mi hai dato. Mi era rimasto il segno per due settimane sai?
- Ambè. Ti ringrazio di non volermene. Pensa che per il rimorso non ci dormivo la notte.
- Vedo che hai ancora molto risentimento. Sai, ho pensato molto alle nostre cose e mi sono convinta che tu soffra essenzialmente perché, a causa del mio disturbo non siamo mai riusciti a fare l’amore completamente.
- Ma cosa vai a pensare? ‘Sto fatto che davi la figa e il culo ad altri, mentre con me sembrava che ti stesse profanando una torpedine elettrica, ammetto che un pochino mi disturbava. Ma me ne sono fatto una ragione, non darti pena.
Iniziò a battere le palpebre per spremere due stitiche lacrimuccie che le inumidirono le ciglia.
- Guarda! - disse enfatica, alzando il livello del pathos - Se è solo questo che ti rende così duro e astioso: scoparmi ora. Fallo come preferisci e ti lascerò fare senza un lamento. Ecco, sono pronta!
Tirò su la gonna e sfilò le mutandine a mezza coscia: portò l’avambraccio a coprire gli occhi e restò in attesa come un agnello al sacrificio.

(Continua)
Rispondi

Torna a “Racconti a capitoli”