La Sampo Pt. 13

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La Sampo Pt. 13

La notte trascorse con un sonno agitato, c’era un dolore sottile e perfido che mi impediva di dormire profondamente, avevo anche sognato che andavo in giro per negozi di ferramenta, alla ricerca di una tenaglia per estrarmi il dente da solo.

Come prevedevo il male non mollava, anzi cominciava a espandersi fastidiosamente: lo sentivo estendersi a tutta l’arcata della mascella superiore.
Presi una delle solite confezioni di soluzione anestetica che tenevo di riserva e ne spruzzai una cospicua quantità nella carie interessata.
Non avrebbe risolto il problema, ma quanto meno avrebbe mitigato il dolore nella fase più acuta.
Ovviamente era una soluzione temporanea, la sollecitazione del nervo scoperto non sarebbe cessata con quel placebo, temevo il peggio.

Nel primo pomeriggio la guancia iniziò a gonfiarsi: sembrava avessi preso un pugno di quelli secchi.
Cazzo! Non era il solito mal di denti, ma un ascesso in piena regola che stava infiammando tutta la mascella, me lo confermò lo specchio nel quale scandagliai lo stato della situazione.
Ma le disgrazie non vengono mai sole: dei brividi e un pesante cerchio alla testa, preannunciarono un’ influenza in arrivo.
Presi a starnutire a raffica mi colava il naso, tremavo per la febbre in crescita e in bocca avevo un gusto vomitevole, mischiato al sapore nauseabondo di sangue. Stavo da cesso.
La situazione precipitava velocemente, buttai giù un paio di aspirine e misurai la febbre: trentotto e cinque alle tre del pomeriggio.
Mia madre insisteva per somministrarmi una supposta di Tachipirina 500. Mi opposi fermamente! Le supposte non le sopportavo, ma lei ribadiva che erano quelle pediatriche per bambini, di dimensione minuscola, ma rifiutai di sottopormi a quel rimedio invasivo.

Nella notte la febbre aumentò a toccare i trentanove gradi: il lato sinistro del volto era gonfio come un mezzo cocomero.
L’ intumescenza si estendeva dalla palpebra sotto l’ occhio semichiuso e lacrimante, all’area ghiandolare sotto la mascella, procurandomi una fastidiosa dolenzia anche all’ orecchio.
La narice della parte interessata era occlusa dal gonfiore, di conseguenza il forte raffreddore trovava difficoltà a sfogarsi soffiandomi il naso: avevo già consumato un centinaio di fazzolettini di carta e per l’impossibilità di respirare col naso, mi toccava farlo a bocca spalancata.
La voce era rauca e flebile, anche solo deglutire dell’acqua risultava un’impresa dolorosa e complessa.
Avevo dolori nelle ossa come se mi avessero bastonato seriamente, chiuso in un sacco.
Sudori, alternativamente caldi e freddi, si inseguivano tra i fluidi del mio corpo malato, bagnavo pigiami e lenzuola rendendoli simili a sudari, ero costretto a cambiarli entrambi due volte al giorno.
Ero in condizioni pietose: uno straccetto ripugnante, fradicio e dolente, regredito alla condizione di ameba sub-umana.
Mi facevo schifo! Avrei desiderato sprofondarmi in una voragine buia e profonda, dove, senza più coscienza di me e del mio stato, avrei disperso le mie molecole inferme e la mia inutile esistenza.
Ero sfinito: se non ci fosse stato il pensiero di un futuro con Sampo, avrei chiesto a un Creatore pietoso, di abbreviare le mie sofferenze e togliermi il poco di vita putrescente che ancora mi restava.

Mia madre ricorse al medico e lui prescrisse potenti antibiotici, confermò l’uso della Tachipirina e aggiunse gocce di qualcosa per calmare il dolore e lasciarmi dormire. Ogni volta che le prendevo cadevo in una sorta di nero deliquio catatonico.
Oltre al grande disagio che stavo vivendo, mi subivo anche il biasimo materno: - Disgraziato! Guarda come ti sei ridotto. Quanti anni sono che dico: andiamo a farti curare ‘sti benedetti denti. E tu sordo come un muro: niente!. Ti sta bene! Che ti serva di lezione, brutto incosciente. Resterai sdentato come un novantenne a meno di trent’anni.
In quell’ abbrutimento mi toccò pure di subire anche l’onta delle supposte di Tachipirina.

Il giorno di Venerdì fu un altro giorno di passione: il dolore dell’ascesso si era stabilizzato su un livello fisso, ma senza punte acute da farmi piangere. Restavo costipato, sordo da un orecchio, con il solito occhio a mezzo servizio, gonfio e con la pelle tesa e lucida per mezza faccia.
L’ unica nota consolante era che la tumefazione non aumentava e anche l’influenza non peggiorava. La temperatura oscillava intorno al trentotto.
Una cosa fastidiosa che mi accadeva era che, nei pochi e brevi momenti in cui mi assopivo, entrando in uno stato di ottundimento, sognavo Adriano Celentano che cantava “Azzurro”. Che palle!
Poi da sveglio il motivo continuava a perseguitarmi ossessivamente, mi girava in mente senza che lo cercassi, una specie di colonna sonora continua e non richiesta.
Non che avessi qualcosa contro la canzone di Paolo Conte e il suo interprete, ma il fatto che mi invadesse la mente me la stava facendo odiare.
Più la sentivo e più mi risultava stupida e completamente estranea al contesto che stavo vivendo: che c’azzeccava “Azzurro” col mio tormento di quei momenti?

Come promesso, a fine pomeriggio, venne a trovarmi Giulio.
Il suo comparire sull’ uscio della mia camera mi sollevò un po’ lo spirito: incontrarlo era sempre un’ iniezione di fiducia verso gli strali della vita.
- Ciao frà. Buon anno. Come ti butta? - lo salutai con un rantolo di voce.
- Buon anno. Io bene. Tu invece mi sembri una merda sfatta.
- Eh. Dillo forte. Hai visto come sono conciato?
- Ahahahaha! Hai la faccia gonfia e rossa come il culo di una scimmia.
- Se, vabbè. Allora baciamelo! - risposi svogliatamente.
- Ma povero ciccio, tutto gonfio e che se la prende subito.
- Perculami anche, dai. Come se non bastasse ‘st’ accidente che mi è preso.
- Forza. Ripigliati! Che fra tre giorni torna Sampo e se ti trova così gli passa la barca a vita.
- Ma sarai stronzo. E’ proprio quello che pensavo. Non posso mica farmi vedere in questo stato.
- Vabbè. Gli dici che ti son venuti gli orecchioni. Che non puoi vederla perché sei contagioso e vi beccate tra due settimane.
- Ma crepa! Cazzo dici? Altre due settimane così e mi sparo.
- Ma sparati ‘na pippa e falla finita. Neanche ti fossi beccato un tumore maligno, invece di un raffreddore col mal di denti.
- Vabbè, non è solo per questo, ma sembra che la sfiga con me si diverta una cifra.
- Le sfighe sono altre fratello mio, credimi. Lasciatelo dire.
Disse queste ultime parole con un tono insolito, mi sembrò fuori posto: troppo serio per il contesto del nostro dialogo, quanto meno lo interpretai così. Ne restai colpito, come fosse stato in procinto di dire qualcosa, ma si fosse fermato.
A guardarlo era come se la luce, per un momento, fosse cambiata sul suo volto e mi accorsi che aveva un’aria tirata e stanca.
Mascherava qualcosa che gli pesava dentro con l’ironia e il suo fare ridanciano.
- Che c’è frà? - gli chiesi - Ti vedo strano. Sono i postumi della ciucca o c’è dell’altro?
- Perché me lo chiedi?
- No. Così, una mia sensazione.
- Ahahahaha! Te e le tue sensazioni. Ma no dai, che vuoi che ci sia.
- Vabbè mi sarò sbagliato. Hai poi pensato su in montagna?
- Si. Ho pensato.
- Ok. Allora hai deciso?
- No. Ancora no.
- Insomma: hai solo pensato a ubriacarti, ma non ha poi risolto un cazzo.
- Già. - sorrise, ma non con gli occhi.
- E adesso che farai?
- Boh? ‘Sta sera devo andare da Lara. Mi aspetta. Poi si vedrà.
- Capito. Fagli gli auguri di buon anno da parte mia.
- Ok. Però mica c’ho tutta ‘sta voglia di andarci. Hai per caso un po’ di shit? Mi farei volentieri uno spino?.
- Macché, magari. Non ho più niente, anzi speravo ne avessi tu, che magari due note ci starebbero.
- No, sto senza. Anzi, quasi quasi, prima di andare da Lara, vado a cercarne un po’.
- Bastardo! Chi non fuma in compagnia è un ladro o una spia.
- Ahahaha! Lo so, lo so. Senti: se ne trovo, torno dopo cena e ci facciamo una cannetta, poi Lara la vedo domani, ok?
- Per me va bene. Fa quello che ti viene, tanto sto qua.
- Dai, facciamo così. Alla peggio ci vediamo più tardi.

Ci abbracciammo, salutandoci con vigorose pacche alle spalle.
- Buona spesa - gli dissi.

(Continua)
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