Rag ball - Capitolo 5 di 1/2

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Azzurro come l’ombra del cielo

«Buongiorno amore mio!» Esclamò la padrona aprendo la porta della cucina. Il profumo della sera prima si disperse all’istante.
Boldo si tirò su, si stirò e sbadigliò alla grande. Emise un guaito di felicità, il suo sogno precedente: il pollo al cherry della sera prima.
«Ok pigrone, è ora di svegliarsi» Disse amorevolmente la giovane ragazza.
Boldo iniziò a girare su se stesso. Era un cane molto strano, capace di rincorrere per ore la sua coda, l’ombra della sua stessa ombra. Un bassotto e la sua lunga e aguzza coda che muoveva soltanto quando la felicità arrivava al culmine.

Chiara ventiquattro anni, pura convivente di sé stessa.
Quel giorno aprii svogliata e assonnata le persiane di legno della sua stanza creativa e culinaria. L’occhio del mondo fece capolino e i primi timidi raggi illuminarono ogni traiettoria, tra cui anche la cuccia di Boldo.
La tazza bianca con i cuoricini rossi era già pronta sul ripiano della macchinetta del caffè: vuota e fredda in attesa da un intera notte. Non appena Chiara tirò giù le tende, Boldo si avvicinò a lei con il desiderio di una carezza.
«Ben svegliato Boldino...Come stai eh?» Disse la ragazza mentre si accovacciò accanto a lui. Una semplice carezza era tutto l’oro del mondo, un attimo eterno e dolce. Più o meno come vincere un superenalotto senza comprare il biglietto.
Dopo un secondo la ragazza, e con manualità accese la macchinetta del caffè. Caffè bollente, quello che ci voleva per essere vivi: una buona colazione, un ottimo sollievo. Le mattine della fanciulla erano pressoché tutte uguali, faceva colazione, si lavava e si vestiva come sempre. Una routine del tutto normale, l’unica variante: lei era una casalinga affermata.
Chiara e il suo bassotto stavano bene insieme, si amavano e si completavano a vicenda. La giovane ragazza ammirava molto la vita del suo cane; semplice e concreta. Dalla mattina alla sera faceva il suo dovere: Boldo si metteva in guardia, scodinzolava, dormiva, mangiava ma soprattutto conduceva una vita da cane: un flusso invidiabile per chiunque. Invece la vita della sua padrona era più complicate e colma d’obblighi.
Dopo aver bevuto di corsa il caffè bollente, Chiara iniziò la sua sfida giornaliera. Vincere contro l’azzurro splendente del cielo. Per tutti, l’azzurro era una tonalità che donava quiete e ricchezza per l’anima invece per Chiara quel colore era il suo nemico peggiore. Ogni volta che si preannunciava una giornata serena, la giovane casalinga si sentiva confusa. Era come se nella sua mente si creavano dei vuoti incolmabili; faceva le cose senza pensare, diceva cose senza senso e spesso veniva assalita dall’ansia. Fortunatamente c’era il suo Boldo che, per quanto possibile, la faceva sentire sempre indispensabile.
Chiara si metteva all’opera soltanto quando Boldo si decideva ad accomodarsi sulla poltroncina. Vedere il suo cane che dormiva così beatamente la faceva sentire sicura di sé stessa.
L'orologio di casa girava e il tempo passava in fretta ma Chiara si muoveva sempre come una lumaca dolente, abitudinaria e strisciante nella direzione più giusta. La sua sagoma voleva rimanere nell’ombra da tutto. Era una ragazza timida come una matita semi appuntita. La sua vita, da un po' di tempo era scalfita da piccole temperie esterne.
Fuori, l’attendeva il suo perenne dilemma.
Inquietudine? Senso di inadeguatezza? Paura? Dispersione? Nessuno sapeva rispondere, neanche lei alla bellezza dei suoi trentatré anni suonati con un rintocco malinconico. Chiara era sempre sul lastrico del sogno e dell’incubo. La sua genetica sembrava un passero ingarbugliato fra i rami in piena primavera. La ragazza andava in iperventilazione quando osservava quel cielo azzurro. - Troppo limpido – pensava ogni volta la ragazza impaurita. Boldo rimaneva in cucina dove il sole batteva sempre durante la giornata, il bassotto sapeva apprezzare ogni cosa anche quel sole invernale: tiepido e allegro.
Fin da piccola Chiara era considerata strana, conosciuta da tutti come la “fanciulla della luna” per via delle sue gote più pallide della neve. I suoi parenti i l’avevano battezzata così, quasi per prenderla in giro. Carla, la madre, si rendeva conto che quel soprannome era in realtà una pessima burla da chi non comprendeva il vero disagio della figlia. Chiara era stata traumatizzata fin dalla pubertà, quando scartò per la prima volta il suo regalo di compleanno: una morbida palla di colore azzurro brillante.
I nonni paterni le avevano regalato una palla di stoffa, un gioco semplice adatto per una bambina di quattro anni. Un piccolo mondo soffice e protetto quanto una carezza di una madre premurosa. Il nuovo gioco poteva essere, oltre che uno svago, uno stimolo in grado di catturare l'attenzione della bambina. Chiara rispose bene alla novità del momento e non perdeva mai l'occasione di farla rotolare sul pavimento della sala. Di qua e di là, a destra e a sinistra, con il sole e con la pioggia. Stoffa e movimenti.
Però un giorno successe qualcosa di inaspettato. Mentre Chiara stava gattonando sopra i rombi bianchi e neri del pavimento della sala, la sua palla ricevette una spinta troppo forte che confuse la vista della piccola.
La bimba si fermò di sopraffatto, i suoi occhi erano perplessi senza direzione. Notò con stupore che la palla smise di rotolare e si fermo in un angolo. Ottuso. Era un bellissimo pomeriggio d’aprile, l’azzurro del cielo risaltava dappertutto, anche tra quelle mure senza nemmeno un segno di muffa.
«Chiara, che cosa ci fai impalata li tutta sola?» Disse premurosamente Martha, la sorella maggiore.
La piccola non rispose, rimaneva imbambolata e immobile come un albero in pieno inverno.
«Oi, ci sei?» Ripeté nuovamente la sorella.
Martha mise una mano aperta davanti al viso della sorella per vedere la sua reazione. Chiara non fece nulla.
«Mamma, Chiara non sta bene!» Esclamò la sorella preoccupata.
«Arrivo, sono in mansarda...» L’eco della madre rimbombò dalle scale a chiocciola.
«Amore di mamma che c’è?» Domandò la donna mentre si asciugava le mani nell’angolo della sopravveste.
Chiara non rispose. Rimase in ginocchio con lo sguardo fisso nel vuoto. Terrorizzata da quella luce angolare.
«Chiara ci sei?» Chiese Carla angosciata.
La figlioletta era in tilt, non sentiva nessun suono, neanche il batacchio amoroso della madre che tentava di risvegliare il suo stato celebrale. Chiara rimase assente per giorni interi. Sembrava che le sue giornate passavano a rallentatore, pranzava e cenava senza rendersi conto, apriva la bocca solo per accontentare la madre e la sorella.
Man mano che cresceva, il carattere di Chiara divenne sempre più irrequieto dalla mattina alla sera, a maggior ragione quando c’era il sole. La bimba divenuta ornai adolescente ogni volta che era bel tempo, sgranava gli occhi e iniziava a tremare. Insicura di se stessa fu la diagnosi dei primi specialisti.
Ma la madre non si rassegnò a quel referto redatto in modo sbrigativo da un dottore sconosciuto e volle approfondire, in completa autonomia, il comportamento della figlioletta.
Carla ci stava riuscendo con un po' di pazienza, pian piano con l’aiuto della scuola aveva raggiunto degli ottimi risultati. Chiara sorrideva di nuovo.
Ma una mattina, quando le rondini iniziarono a fare i primi nidi sulle travi dei tetti rossi, la madre trovò Chiara in uno stato pietoso. Era tutta rannicchiata in un angolo della casa dove non batteva mai il sole, accanto aveva la sua palla di pezza color azzurra. L’aveva tenuta sempre con cura e, anche se adesso era diventata grande, ogni tanto la palla sbucava fuori. Quel giorno Chiara si ricoprii con tanti rami secchi trovati in giardino, sembrava un piccolo passerotto indifeso ingarbugliato in un intreccio rudere.
«Chiara che ci fai la sotto?» Gridò la donna scombussolata.
«Mamma ho paura!» Esclamò la ragazza con il fiato corto.
«Di cosa amore?» Chiese rassicurante Carla.
«Del sole...» Rispose Chiara.
«Cosa? Del sorriso di Dio? E perché?» Domandò incredula la madre.
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