Traccia: Il ponte crollato. Unico anello di congiunzione tra due luoghi, improvvisamente il ponte è crollato. Ha lasciato inevitabilmente un vuoto, un precipizio invalicabile.
Massima libertà, la sola cosa importante è che nella vostra storia venga a mancare ciò che rendeva possibile raggiungere (o lasciare) un luogo. Quindi il ponte potrebbe essere una metafora e non per forza essere presente fisicamente, ma il senso deve rimanere quello.
Massima libertà, la sola cosa importante è che nella vostra storia venga a mancare ciò che rendeva possibile raggiungere (o lasciare) un luogo. Quindi il ponte potrebbe essere una metafora e non per forza essere presente fisicamente, ma il senso deve rimanere quello.
Mostar, 4 novembre 1993
Verde, un filo di smeraldo stretto tra le rocce, veloce, arrabbiato, pericoloso e ricco di fascino.
Un confine naturale quello del Neretva, dove oriente e occidente si guardano dritto negli occhi, le narici dilatate annusano la fierezza, la storia, la paura.
Sponde abbracciate da un colosso di pietra, bianca, dura come metallo. Una stretta di mano che incute rispetto, il grande Stari Most.
La visuale dal ponte è splendida: il fiume dalle acque cristalline si insinua a stento tra gli alberi e scava un suo modesto posto tra le rocce. Il panorama sembra richiudersi su sé stesso. Tomislav si ferma un attimo a osservarlo con orgoglio: quella bellezza gli appartiene, è la sua terra. Abbozza un sorriso. Stiracchia le dita dei piedi; non li ha mai avuti tanto caldi prima di indossare gli anfibi militari. Anche la mimetica ripara bene dall’umidità.
Una settimana fa ha iniziato la ronda sul ponte.
“Jovanovic!” gli hanno ordinato “Mettiti qui, verso ovest: spara a vista.”
Tomislav ha imparato presto ad armeggiare con il fucile. Aveva solo sette anni quando scoprì quello di suo padre nascosto nel fienile: lucido, asciutto e ben oliato, pronto per sparare. Matjia Jovanovic lo aveva ricevuto in eredità e lo conservava con la cura meticolosa di chi sa che un giorno gli potrà servire.
Una sera, a cena, Tomislav aveva trovato il coraggio di parlarne.
“Mi insegnerai a usarlo?”
“Che cosa?”
“Il fucile.”
Il padre aveva alzato la testa e lo aveva squadrato da capo a piedi. Non si era reso conto di quanto fosse cresciuto in fretta quel bambino. Era sorpreso. Avvicinatosi alla pentola che borbottava sul fuoco, aveva affondato il cucchiaio nello stufato di cui andava matto. Poi, aveva tracannato un bicchiere di Blatina e asciugato la bocca con il dorso della mano.
“Marija, nostro figlio ha ragione. È quasi un uomo, ormai.”
Tomislav aveva preso a mordicchiarsi le labbra, ma non aveva abbassato lo sguardo nell’attesa della risposta.
“Certo, ti insegnerò. Ora, però, siediti a tavola.”
La madre era rimasta in silenzio. Le labbra strette in una preghiera muta, lo sguardo rivolto alla piccola croce in legno, appesa alla parete annerita dal fumo.
Di lei non gli restano che una manciata di ricordi e un’ immagine sacra, sbiadita, chiusa nel taschino della divisa, sul lato del cuore.
Ora che ha diciannove anni e uomo lo è per davvero, Tomislav se ne sta lì, lo sguardo rivolto al Ponte, un fucile tutto suo. E non lo ha trovato in un vecchio fienile.
“Ho deciso di arruolarmi”.
Suo padre lo aveva abbracciato forte e tirato fuori la bottiglia slivovitz per festeggiare la notizia. Non lo aveva mai visto tanto orgoglioso, prima di quella sera.
Il vecchio Matjia Jovanovic aveva la fama di essere un uomo onesto e perbene, amante della famiglia, lavoratore. Non aveva mai alzato la voce, né il gomito. Tuttavia, aveva sempre trovato il modo di giustificare una certa violenza, specie se perpetrata contro le etnie diverse dalla propria. Troppe culture per un paese tanto piccolo. Non era giusto continuare a pagare gli errori del passato. Che se ne ritornassero da dove erano venuti, quei turchi mussulmani.
Non disdegnava certe battute, gli insulti, o gli attacchi verbali. Simpatizzava verso una certa classe politica che, con le proprie decisioni, stava contribuendo a fomentare sentimenti di odio tra le persone di diversa estrazione religiosa e culturale in seno allo stesso Paese. Una cosa era restare uniti per combattere il tiranno e conquistare l’indipendenza, ma ora si trattava di unire il popolo sotto un’unica bandiera, un’unica religione.
Minareti e campanili non potevano coesistere.
Tomislav aveva assorbito quell'atteggiamento e, senza rendersene conto, lo aveva fatto proprio. Aveva desiderato di possedere un fucile, ascoltato con ammirazione i discorsi dei generali che incitavano alla guerra civile ritenendo che fossero sensati e giusti.
Assorbiva, desiderava, ascoltava e, mentre lo faceva, qualcuno glielo aveva davvero messo in mano quel fucile e gli aveva ordinato di uccidere. Se ne era reso conto quando ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
“Ma non pensi a noi?” aveva obiettato Sulejman, il suo migliore amico e compagno di scuola, quando Tomislav gli aveva accennato di voler, un giorno, diventare un militare.
Sulejman Izetbegović, abitava dall’altra parte del ponte: era un bosgnacco. E così sua sorella Mahira. Una volta che Tomi avesse indossata la divisa, sarebbe stato impossibile continuare a frequentarsi.
“E a Mahira non ci pensi?”.
Era un ragazzo dolce Sulejman, un cuore gentile. Il padre non lo sopportava: avrebbe voluto vederlo forte, un combattente, ma lui preferiva impugnare un pennello e imbrattarsi le mani di colore anziché di sangue. Per questo motivo l’uomo aveva accettato di buon grado l’amicizia con Tomislav nonostante abitasse di là dal ponte; quel ragazzo che parlava di fucili e di guerra gli ispirava simpatia. Forse, avrebbe potuto influenzare quel suo figlio troppo debole.
Ma non era alla guerra che i due ragazzini giocavano insieme. Tomislav trascorreva interi pomeriggi a osservare Sulejman mentre disegnava, affascinato dalla sua bravura. Quelle piccole mani si muovevano con l’agilità di un pittore consumato. Era il loro piccolo segreto.
Una volta ultimato il disegno, Sulejman lo accartocciava e lo gettava nel fiume per non rischiare di essere picchiato dal padre, se lo avesse trovato.
Un giorno, aveva disegnato il vecchio ponte: il glorioso Stari Most maestoso e possente.
“Sulej, questo non puoi buttarlo! Dallo a me.”
Sulejman aveva alzato le spalle e glielo aveva consegnato.
“Se ci tieni tanto te lo regalo, Tomi. Ma non dire che l’ho fatto io.”
Tomislav si passa la mano sul volto, come per accarezzare un ricordo, la cicatrice che ha sulla tempia prude quando c’è umidità. E pensare che se l’è procurata proprio sulla sponda di quel fiume, giocando con la sorella del suo migliore amico.
Mahira, occhi scuri e profondi, una cascata di capelli castani e un piccolo neo sopra la bocca, sul bordo delle labbra. Voleva studiare, diventare medico. Come era intelligente e bella.
Erano cresciuti nella loro Mostar ai lati opposti del ponte. Tomislav era ortodosso, Mahira mussulmana.
Tomislav era biondo, Mahira, bruna. Lui non sapeva arrampicarsi sugli alberi, lei sì, ma lo faceva solo se era certa che nessuno la guardasse. Una volta, nel tentativo di imitarla, Tomilslav era cascato dall’albero e aveva battuto la testa sul terreno. Mahira non si era persa d’animo e aveva cercato di soccorrerlo come poteva. Si era tolta la camicia e improvvisato una fasciatura premendo con forza per cercare di contenere l’emorragia.
“Suliejman! Vai a chiedere aiuto, corri!”
Tomislav quella volta aveva rischiato grosso. C’erano voluti diversi punti di sutura per ricucirlo, ma la ferita che bruciava di più non era quella visibile dall’esterno.
Mahira lo aveva salvato e lui l’avrebbe portata per sempre nel cuore.
Con lo scoppio dei primi disordini, qualche anno prima che divampasse la guerra, Mahira, Sulejman e il resto della famiglia avevano lasciato Mostar per andare chissà dove. Nessuno aveva più avuto loro notizie..
“Ormai Mostar mi odia” gli aveva detto Mahira, rassegnata.
Da quel giorno Tomislav aveva deciso di non frequentarla più. Era diventato troppo rischioso farsi vedere insieme e non avrebbe mai voluto che le accadesse qualcosa di male.
Si erano rincontrati qualche tempo dopo, per caso, in piazza. Lei camminava con passo lesto, il capo chino, gli occhi fissi sulla strada. Tomislav l’aveva riconosciuta da lontano: aveva un modo di camminare inconfondibile.
"Ma che ne sai che Mostar ti odia", si era trovato a pensare. Avrebbe voluto abbracciarla, baciarla, dirle che tutto l’odio del mondo non poteva essere grande quanto il suo amore per lei. Non ci riuscì; non riuscì a trovare il coraggio. Il loro addio si consumò nel silenzio.
Quel giorno, tornò a casa tardi dopo aver camminato a lungo sulla riva fiume.
Ascoltava, Tomislav, recepiva, assorbiva, e, nel mentre, non si era accorto che qualcuno gli aveva messo in mano un fucile. E adesso, su quel ponte, quanto era contento, Tomislav, di non aver ancora trovato qualcuno su cui puntarlo.
Mostar, 9 Novembre 1993
La terra trema. Il ponte trema.
Il giro di ronda è iniziato come suo solito, ma adesso la terra trema.
Tomislav sente il rombo degli aerei e il tuonare dei cannoni, sempre più vicino.
Dovrebbe sentirsi esaltato, ma si sente solo impaurito. È davvero questa la sua rivoluzione, e quella di suo padre? Nell’aria solo urla confuse, sibili, spari. Eppure è una bella giornata di sole, ne sente il calore sulla pelle.
"Che bello questo sole" si ritrova a pensare solo un attimo prima di precipitarsi giù, per le scale di pietra.
Giusto il tempo di scendere sulla riva, la stessa dove anni prima rincorreva Mahira e si spaccava una tempia cadendo da un ramo, la stessa dove aveva passeggiato dopo che lei e Sulejman avevano lasciato Mostar.
Adesso è solo un soldato sdrucito e coi capelli biondicci sporchi e sudati sotto l’elmetto, gli anfibi caldi e pesantii e la casacca troppo grande.
Il frastuono è indescrivibile. Non riesce a realizzare subito ciò che sta accadendo. Il cielo all’improvviso è una cappa di piombo e un vento tagliente fa mulinare le macerie e morde la faccia. L’odore della polvere da sparo mista a sangue riempie i polmoni e impasta la bocca di un sapore ferroso.
Alza gli occhi. Il ponte è stato colpito e sta crollando. Una folla di gente incredula e incurante del pericolo esce dai propri rifugi e raggiunge di corsa la sponda. Centinaia di uomini, donne, bambini sbalorditi fissano il vuoto e la voragine. Gridano, piangono, imprecano, alzano le mani verso il cielo. Lo Stari Most non c’è più. Mostar non c’è più. Non ci sono vincitori in questa guerra.
Tomislav non si è mai sentito più solo di così. Non ci sono Mahira e Sulejman, non ci sono suo padre e sua madre.Il ponte si sta sgretolando; le pietre bianche e lucide cadono nell’acqua con tonfi sordi e il fiume le ingolla una ad una. Ora, sulle sponde, non resta che una città spaccata in due: una frattura impossibile da sanare.
Un soldato lo urta col fucile. Sta scappando via da quel casino.
Tomislav lo segue con lo sguardo fino a quando lo vede sparire verso l'orizzonte, magari verso il confine.
In fondo, il confine non è così lontano.
Stringe ancora il fucile tra le mani. No. Non c’è più posto per un fucile nella sua vita.
Si guarda intorno, nessuno farà caso a lui.
Tra la polvere e gli spruzzi d'acqua c'è un ponte crollato, caduto a pezzi come le proprie convinzioni.
È proprio lì, che Tomislav Jovanovic, diciannove anni, getta il il suo fucile.
E corre via.