[H25] L'hotel alla fine del mondo
Posted: Sun Nov 02, 2025 11:22 pm
				
				L’HOTEL ALLA FINE DEL MONDO
Quando riaprii gli occhi il mondo sembrava scomparso, soffocato da una nebbia fitta e pesante come tende di velluto grigio.
Ciò che ne restava erano soltanto rumori inquietanti e versi spettrali di animali selvatici. 
Un ululato riecheggiava tra gli alberi come un richiamo di morte imminente, sussurri sordi e minacciosi mi sibilavano sulla testa, il canto di una civetta si perdeva tra i rami invisibili come il lamento di un’anima dannata, grugniti gutturali raspavano famelici il terreno attorno a me.
Vagai a tentoni, le mani protese nel tentativo di orientarmi, guidato da un istinto irrazionale, i passi incerti che soppesavano il crepitare delle foglie secche e dei ramoscelli spezzati sotto i piedi, mentre ogni ombra si trasformava in un volto deformato, ogni suono in un richiamo sinistro.
D’improvviso la nebbia si diradò, giusto per un breve tratto, rivelando tra la boscaglia il profilo semidiroccato di un vecchio hotel, avvolto in un intreccio confuso di rampicanti; sparute luci, fioche come lampare, barcollavano dietro i vetri martellati, mentre gli ultimi avanzi di un cupo tramonto incenerivano il cielo smagliato da nuvole nere.
Come attratto da un richiamo ancestrale, mi avvicinai al fatiscente ricovero. Primi che potessi percuotere il batacchio dalla foggia luciferina, il pesante portone cigolò sui cardini arrugginiti aprendosi lento davanti a me.
Ne fece capolino il portiere, un anziano dai tratti spigolosi e lo sguardo ruvido, che reggeva una lanterna in una mano e allungò l’altra verso di me come una condanna. 
– Ti aspettavamo, viandante dell’oscurità. Io sono Caronte.
Lo fissai incerto.
– Che facciamo, ci parliamo in endecasillabi?
Quello tagliò il viso con un ghigno malefico.
– Devi solo seguirmi: ti accompagnerò nel tuo girone.
– Sono dunque morto? – chiesi indugiando alle sue spalle.
– Non ancora. Il tuo destino si deciderà durante il soggiorno.
Mi arresi, seguendolo nel silenzio angosciante attraverso un dedalo deserto di scale scricchiolanti e corridoi stretti e tortuosi. Dalle finestre incrinate filtravano lame di luce lunare che creavano ombre danzanti sulle pareti screpolate. Ogni porta pareva custodire un segreto oscuro, e dall’interno delle stanze chiuse arrivava la musica di vecchie canzoni, come un richiamo a tormenti rimasti intrappolati tra le mura.
Mi parve di riconoscerne una, e accostai l’orecchio alla porta.
– Ehi! – mi lasciai sfuggire – Ma questa è “Heartbreak Hotel”, è Elvis!
Caronte mi rispose senza fermarsi.
– Quello è il girone degli eccessivi. 
- E qui dietro? - dissi fermandomi davanti a un’altra porta – Questa è “Stupido hotel” di Vasco!
- Quello è il girone di chi non si lascia stare – spiegò ancora Caronte, procedendo senza tentennamenti.
Stordito ma affascinato, disorientato ma attratto come da una calamita irresistibile, continuai a seguirlo ondeggiando tra note e versi, fino a sentire sfumare “Hotel California” dal girone dei malinconici. 
Prima di salire l’ultima rampa di scale Caronte si arrestò, voltandosi verso di me e fissandomi con uno sguardo strano, come fosse sorpreso che mi trovassi ancora lì. Non aveva occhi di brace, ma un bagliore altrettanto sinistro gli ardeva nelle iridi. Alzò la mano verso il piano superiore, indicandolo con l’indice. Ancora una volta ebbi la sensazione che emettesse una sentenza di condanna per un reato che non conoscevo.
O forse il solo e unico reato era la mia stessa vita.
– I gironi finali, quelli per coloro che non hanno mai avuto pace.  
Annuii, consapevole che era ciò che mi attendeva.
– Senti, ma tu che ci fai qui?
– Espio le mie colpe, come tutti – rispose abbassando lo sguardo sui piedi e riprendendo a salire le scale. – Lavoravo all’Hotel Supramonte. 
Superato l’ultimo gradino la musica dei piani inferiori scomparve d’incanto, e davanti a me si aprì un palcoscenico di incubi dimenticati, con il pavimento cosparso di frammenti di specchi rotti e vecchi costumi consunti. Alle pareti quadri senza cornice con le tele lacere e macchiate di muffa immortalavano scene di film che avevo visto. In un angolo, una sedia a dondolo scalcagnata iniziò a oscillare lentamente, come spinta da una forza invisibile.
Un enorme sipario polveroso copriva l’accesso alle ultime stanze. Lo scostai, ritrovandomi sbigottito davanti alla doccia del Bates Motel. Un brivido di freddo sudore scese a fendermi la schiena.
– È qui? – balbettai impaurito.
Caronte si fermò accanto a me, alzando la lanterna e allungando la mano per mostrarmi la mia condanna: una porta nera.
– No, è quella, l’ultima. E io non posso seguirti. O trovi la pace o finisci d’impazzire.
Non ci pensai nemmeno un secondo. 
Aprii la porta nera. 
Un lunghissimo pavimento a scacchi obliqui si perdeva nel fondo buio di un interminabile corridoio. 
Tesi l’orecchio per ascoltare le voci, ma il silenzio dell’Overlook Hotel era rotto solo dal ronzio dalle ruote del triciclo di Danny.
Mi voltai verso Caronte: alle mie spalle era rimasto soltanto il vuoto.