[CE2025] L'ultimo bignè
Posted: Wed Aug 06, 2025 6:08 pm
Traccia n1 - Le lettere ritrovate
[CE2025] L'ultimo bignè
Un tiepido pomeriggio di ottobre, nel commissariato di Torre Sant’arcangelo, l’ispettore Guareschi dette un paio di colpetti alla porta, l’aprì e mise dentro la testa: «Dottore, c’è il signor Viscardi.»
«Grazie. Fallo entrare e resta qui.»
Guareschi si fece da parte e quello entrò. Alto, bello, abbronzato, con gli occhiali da sole e un sorrisetto alla Ciao, sfigato che gli faceva venir voglia di prenderlo a schiaffoni. Gli stavano sulle palle quelli così. Per principio, più probabilmente per rancore, dato che il commissario Nardelli era tracagnotto, calvo e con la gastrite.
«Si accomodi» gli disse invece.
Quello si accomodò sulla poltroncina davanti alla scrivania, tolse gli occhiali e gli piantò addosso uno sguardo smeraldino che sapeva di barca, calici di prosecco e di un Cazzo ci faccio qui? che non aveva alcun bisogno di essere pronunciato.
«Villa Mandarina, i coniugi Leonetti» fece Nardelli.
L’altro sporse un poco il mento e scosse la testa: «Sono i nuovi proprietari della casa di famiglia. C’è qualche problema?»
Il commissario aprì un cassetto e gli mise davanti una busta trasparente piena di lettere, tutte col timbro Rinviata al mittente: «Le hanno trovate nell’intercapedine di un muro durante i lavori di ristrutturazione. Vuole darci un’occhiata?»
«Per me può anche buttarle, bruciarle, ne faccia quello che vuole, non mi interessa.»
«E invece dovrebbe.»
«Devo dedurre che lei lo abbia già fatto.»
«Mi spiace, ma per come si sono messe le cose, non ne ho potuto fare ameno.»
«Di che sta parlando?»
Nardelli si passò le mani sulla faccia, le lasciò congiunte davanti alla bocca e alla fine decise di prenderla alla larga: «Intanto, condoglianze per suo zio.»
«Sì, grazie. E poi?»
L’altro prese una busta e gliela porse: «Legga, almeno questa. È l’ultima in ordine di datazione. Dopo, credo che sarà più facile parlare.»
Alberto Viscardi serrò la mascella, tolse dalla busta un foglio ingiallito e quando ebbe finito, pallido come un cencio, disse con un filo di voce: «Potrei avere un po’ d’acqua?»
Guareschi scattò in piedi e tornò con un vassoio dove, accanto al bicchiere, fumava un caffè. «Ci ho messo due bustine, lo zucchero aiuta» disse e tornò a sedere.
«Io non immaginavo…» sussurrò Viscardi.
«E come avrebbe potuto?» fece Nardelli. «Sua madre le ha scritto per vent’anni, ma lei non ha mai voluto ascoltarla. Per questo ha messo le lettere nel muro, perché sapeva, o sperava, che prima o poi qualcuno le avrebbe trovate.»
«Se solo avessi saputo…»
«Che avrebbe fatto? Magari sarebbe venuto al funerale. No, non credo, del resto non è venuto nemmeno a quello di suo zio.»
Viscardi abbassò lo sguardo.
«Ma io la capisco, sa? Certe ferite dell’anima non si rimarginano.»
«Anzi si infettano.»
«Già, come quelle di sua madre, che alla fine non ne ha potuto più e ha voluto mettere la parola fine.»
«Credevo fosse stato un incidente.»
«Lo abbiamo creduto tutti. La scogliera sotto la panoramica è una trappola mortale, un attimo e si vola di sotto. Adesso almeno sappiamo che non è stato né per un guasto, né per distrazione.»
Alberto Viscardi guardò le lettere, guardò fuori il cielo terso, prese dalla tasca un fazzoletto e ci soffiò dentro. E alla fine: «Anni, commissario. Che sono fatti di mesi, di settimane, di giorni, di ore» disse con la voce rotta. «E tutti questi, messi insieme, sono stati il mio inferno di bambino. Che sapeva, ma doveva tacere perché i Viscardi sono gente onorata e riverita e nessuno, mai e poi mai, avrebbe dovuto nemmeno sospettare cosa facessero veramente a certi ragazzini durante tutte quelle belle feste, picnic e gite in montagna. Mio padre e mio zio, cittadini esemplari, patroni di iniziative benemerite per la gioventù di Torre Sant’Arcangelo, erano due mostri.»
«È per questo che, appena ha potuto, è andato via.»
«Se lo ricorda Giuliano Moncaldi?»
«Il ragazzo scomparso negli anni ’90.»
«Non scomparso. Tolto di mezzo, appena mio padre ci sorprese nel fienile. Un figlio frocio? Inammissibile.» Viscardi vuotò il bicchiere, drizzò la schiena. «Ma questo lei lo sa già, no? È tutto scritto lì, nella confessione di mia madre.»
Nardelli annuì. L’altro guardò le buste. «Posso tenerle?»
«Guardi, mi piacerebbe tanto dirle di sì, ma non posso.»
«E perché? Ormai la faccenda è conclusa.»
«Non del tutto, purtroppo, non del tutto. È una trama complicata e ci sono ancora tanti fili sospesi.»
«Di che sta parlando?»
«Per esempio del fatto che, una volta cresciuto, avrebbe potuto denunciarli. Perché non lo ha fatto?»
«Me lo sono chiesto mille volte. Non lo so. Forse potrebbe risponderle uno psichiatra.»
«E poi c’è la faccenda di suo zio, la sua morte orribile.»
«Divorato dai maiali. Beh, ci vedo una specie di simmetria, lei no?»
«Simmetria, dice? Interessante. D'altra parte, sono disgrazie che possono succedere, specie a ottant’anni. Uno si affaccia un momento per dare un’occhiata, ha un malore e ci cade dentro.»
«Disgrazie, certo.»
«E infatti Tonio e Pietrino, troppo ubriachi per accorgersi di tutto quel trambusto nella porcilaia, se ne sono accorti il mattino dopo e solo allora ci hanno chiamato. Mi segue?»
«Tonio e Pietrino, sì, erano loro che curavano i maiali. E allora?»
«E allora qui c’è un problema. Eh sì, perché il medico legale, quando ha esaminato quello che restava delle mani e dei piedi di suo zio, ci ha trovato numerose fibre compatibili con una corda. Capisce? Come se fosse stato legato. E se questo fosse vero, sa cosa significa? Che suo zio non c’è caduto là dentro, ma ce lo hanno messo di proposito, sperando che le brave bestiole facessero piazza pulita.»
«Capisco.»
«Beato lei. Perché io invece no. E continuo a chiedermi chi può aver fatto una cosa così terribile? Lei non se lo chiede?»
«Potrei farlo, ma sarebbe inutile.»
«E certo, che ne può sapere lei? Se ne stava dall’altra parte del mondo, aveva tagliato i ponti con tutti da vent’anni. Non fosse per quelle lettere, non sarebbe nemmeno qui adesso.»
«Appunto. Quindi, se non c’è altro, la lascerei al suo lavoro» disse Viscardi e fece per alzarsi.
«Eh no, dell’altro veramente ci sarebbe.»
«Senta, mi dica quello che mi deve dire, ma in fretta se non le dispiace. Ho un aereo tra un’ora.»
«Vita convulsa la sua, mai un attimo di respiro. Non la invidio, sa?»
«Me ne farò una ragione» disse, di nuovo con quel sorrisetto a fior di labbra.
«Perché mi creda, andare sempre di corsa non è una buona cosa. Si superano i limiti senza accorgersene, magari si attraversa un paese, che tanto di notte non c’è nessuno, chi vuoi che ti veda? E invece non solo ti vedono, ma ti scattano pure una foto. Come questa.» E nel dirlo, il commissario aprì un fascicolo e mise sulla scrivania un foglio. «Ammetto che la qualità non sia ottima, però la targa si vede abbastanza bene. La vede?»
«Sì e la riconosco pure. È quella della mia macchina. Ma questo che significa? Non potevo esserci io alla guida, perché la mia macchina è rimasta a qui, io invece ero a Cannes.»
«Ne è proprio sicuro?»
«Certo! Vuole che non sappia dov’ero?»
«Lei sì. Ma io no. Anche perché, guardi è tutto così ingarbugliato che la gastrite mi fa dannare, insomma c’è anche un video.»
«Video, di che cazzo sta parlando?»
«Non si agiti, signor Viscardi, non ce n’è motivo. Lei era a Cannes la notte in cui suo zio è stato ucciso, quindi è tutto a posto. Perché lei era a Cannes, no?»
«Certo che ero lì! Ci sono centinaia di persone che possono confermarlo!»
«Ma sì, al salone nautico Yachting Festival. Abbiamo verificato ed effettivamente lei risulta tra i partecipanti. Non solo, risulta anche tra gli ospiti dell’hotel annesso alla manifestazione. Quindi, le ripeto è tutto a posto. Però… eh però c’è questo video… Gliela vogliamo dare un’occhiatina? Così, per toglierci ogni dubbio.»
Guareschi andò al suo tavolo, prese un portatile e lo mise sulla scrivania.
«È quello della telecamera di sorveglianza del distributore sulla statale» disse il commissario. «E questo…insomma, signor Viscardi, questo sembra proprio lei. Come lo spiega?»
«Lo spiego col fatto che quello è uno stronzo che ha preso la mia auto, i miei vestiti e mi vuole incastrare.»
«E perché dovrebbe?»
«Perché sono l'ultimo della famiglia rimasto in vita, dunque l'unico che da tutta questa faccenda ne trae vantaggio e a qualcuno la cosa non sta bene. Devo dirglielo io, commissario?»
«Qualcuno, eh, si fa presto a dire qualcuno, ma qualcuno chi?
«E che ne so io? Il commissario è lei, faccia il suo lavoro!»
Nardelli, con la fronte aggrottata, continuava a smanettare col mouse. «Comunque ha ragione, perché anche facendo un ingrandimento… Eh no, la faccia non si vede. Dev’essere proprio furbo quello lì, non le pare?»
«Furbo e criminale. Per questo dovrebbe darsi da fare invece di farmi perdere tempo.»
«Ah, ma ci stiamo lavorando, sa? Siamo a tanto così. Una mossa falsa e quello finisce dentro.»
«Bravo. Posso andare adesso?»
«Non la trattengo. Però, lo sa come funziona, devo chiederle di rimanere in zona.»
«Come sarebbe a dire? Non se ne parla nemmeno! Ho i miei impegni io, che crede?»
«E mi dispiace, ma dovranno aspettare. La saluto, signor Viscardi.»
Quello si alzò di scatto e uscì con un bofonchio tra i denti che finiva in ulo.
Il mattino dopo, nella sala ristorante dell’hotel Eden, Alberto Viscardi scese per la colazione, lo vide e si rabbuiò.
«Commissario, che ci fa qui?»
«Buongiorno!» disse quello festoso. «È per i bignè allo zabaione. Nessuno li fa come Ettore. Lo conosce?»
«No.»
«È il cuoco dell’hotel. Un mago, specie in pasticceria. Venga, si accomodi, faccia colazione con me.»
«Grazie, ma non…»
«Oh, non si faccia pregare. Si vede benissimo che ha bisogno di rifocillarsi. Non ha passato una bella nottata, vero?»
«Prendo solo un caffè» disse l’altro cercando con gli occhi il cameriere.
«Ma non va bene. Ci vuole qualcosa di più sostanzioso, dia retta.»
«Senta, commissario, ne ho abbastanza dei suoi giochetti. Che vuole da me?»
«Capire, sciogliere i nodi e rammendare i buchi di questa tela. Perché ce ne sono tanti, sa?»
«Buchi, tela, ma che dice?»
«Mi scusi, è colpa delle zabaione. Mi provoca un flusso di metafore senza controllo.» E nel dirlo addentò un bignè che gli colò sulla camicia. «Però sono interessanti, non trova? Le metafore, intendo. Perché colgono somiglianze tra cose che apparentemente non dovrebbero averne. Eppure non c’è da stupirsi, non più di tanto, almeno. Perché, a ben guardare, il mondo, le cose, perfino le persone, sembrano diversi, ma alla fine non sono altro che giochi combinatori. Prenda un volto, uno qualsiasi, può star certo che da qualche parte ce n’è almeno uno identico, forse più di uno. Basta cercarli. Me l’ha fatto notare mia moglie l’altra sera, mentre curiosava in rete: «Vieni a vedere» mi dice, «guarda che roba!» Era il sito di un fotografo canadese, un certo François Brunelle, lo conosce, vero?»
«Sì, lo conosco.»
«E quindi saprà che ne ha raccolti a centinaia. Non è straordinario? Persone che nemmeno si conoscono e che, senza saperlo, passano tutta la vita con la stessa faccia. Senza saperlo finché non arriva il signor Brunelle che li fa incontrare. E allora questi si guardano, si parlano e chissà cosa si dicono, magari s’intendono, fanno progetti insieme… »
«Non capisco dove vuole arrivare.»
«Arrivare, tornare direi, ai buchi nella trama di tutta questa faccenda. Quelli che devo ricucire. Non è stato facile, ma alla fine ce l’ho fatta. Perché, come dice Sherlock Holmes, Eliminato l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità E di cose improbabili ce n’erano in abbondanza, mi creda. Come il fatto che lei potesse essere al salone nautico di Cannes e nello stesso tempo qui, alla stazione di servizio sulla statale, mezz’ora dopo aver mandato suo zio a cena dai maiali. Vuole un bignè?»
«No» ringhiò Viscardi.
«Non sa che si perde. Dicevo, sembra impossibile che lei possa essere in due posti contemporaneamente. E infatti non c’era. soprattutto non era a Cannes, perché ci ha mandato Hans Müller, il suo sosia, conosciuto nello studio di François Brunelle.»
«È un’idiozia e lei non…»
«Ah sì, a questo punto il sospettato grida sempre qualcosa tipo Lei non ha uno straccio di prova! Ma, vede, noi lo abbiamo trovato Hans Müller, un lavoraccio che non le dico, e quello ci ha confermato tutto. Pensava fosse uno scherzo.»
Nardelli guardò Alberto Viscardi abbandonarsi sullo schienale della poltroncina. Un po’ meno bello di come gli era sembrato in commissariato, un po’ meno Ciao sfigato, barche e Prosecco. Piuttosto esausto invece, come avesse corso tutta la vita, braccato fino allo sfinimento e solo adesso potesse fermarsi a tirare il fiato. Lo guardò e gli fece simpatia, ché tra vittime e carnefici è un attimo scambiarsi di posto. E allora avrebbe anche potuto mettergli una mano sulla spalla, tranquillo, è tutto finito, ma un commissario queste cose non le fa. Dunque finì il suo cappuccino e disse: «Adesso penserà che ho sollevato un polverone tremendo. E la capisco, sa? I polveroni visti da dentro fanno questo effetto. Ma le assicuro che da fuori è tutto diverso. Non devo spiegarglielo, vero?»
«No, non ce n’è bisogno.»
«Invece me la spieghi lei una cosa: perché adesso? Avrebbe potuto fare tante cose già vent’anni fa. Giustizia, per esempio.»
«È una bella domanda. Potrei dirle che è stato per i soldi, lei avrà sicuramente controllato la mia situazione, saprà che sono sull’orlo della bancarotta e potrebbe anche crederci. Ma alla fine, i soldi sono soltanto soldi.»
«Se vuole possiamo far finta di accontentarci di questa spiegazione, però sappiamo entrambi che è più complicato. Credo sia una questione che ha a che fare col dolore, sbaglio?»
«No, commissario, non sbaglia. Il dolore è un veleno molto potente, specie se somministrato a un bambino con l’ordine di tenerselo dentro. E lui lo fa, perché è un bambino ubbidiente. Lo fa per anni, venti per la precisione. Però quello, il veleno, nel frattempo si addensa, diventa rancore, e alla fine si è trasformato in odio allo stato puro. Immagino che, col mestiere che fa, sappia benissimo come funziona l’odio.»
«Sì, dà alla testa e può trasformare anche le brave persone in mostri capaci di fare cose orribili.»
«Una persona carica d’odio è una mina vagante, basta niente per farla esplodere. Una richiesta d’aiuto trattata con disprezzo, una minaccia di distruggere tutto ancora una volta. E quindi sì, commissario, sono tornato. Mi è costato molto, ma avevo bisogno di mio zio, dei suoi maledetti soldi. Volevo solo parlargli, convincerlo, ma lui mi ha riso in faccia. «Levatelo dalla testa, non vendo. La casa, i terreni, il bestiame, è tutta roba mia e tu non puoi farci niente.» Così mi ha detto. «E adesso vattene se non vuoi che dica a tutti chi sei, che da queste parti i froci non li trattano coi guanti.» Si è alzato, è andato a versarsi del gin. E ha fato l’errore di voltarmi le spalle. Non c’è voluto molto. Un vecchio di ottant’anni, lo capisce da sé.»
«Sì, è una storia interessante, ma devo dirle che la versione del raptus regge poco, dovrebbe rivederla. Se avesse voluto soltanto parlare, non avrebbe architettato tutta questa messa in scena. No, lei è venuto qui con l’intenzione di uccidere, convinto di cancellare definitivamente un passato di abusi e violenze. Chissà, se lui avesse accettato le sue richieste, se lo avesse trattato con più comprensione, magari le cose sarebbero andate in un altro modo. Ma in fondo lo sapeva che non sarebbe accaduto. Le persone non cambiano.»
«Già, una carogna resta sempre una carogna. E la sa una cosa? Pensavo che dopo sarei stato meglio, finalmente libero. Invece no. Non è così.
«Non lo è mai. Non per le brave persone.»
«Come mia madre.»
«Come lei, signor Viscardi.»
«Ma ormai è troppo tardi, vero?»
«Purtroppo sì.»
Alberto Viscardi guardò l’ultimo bignè allo zabaione. «Posso?»
«È tutto suo.»
[CE2025] L'ultimo bignè
Un tiepido pomeriggio di ottobre, nel commissariato di Torre Sant’arcangelo, l’ispettore Guareschi dette un paio di colpetti alla porta, l’aprì e mise dentro la testa: «Dottore, c’è il signor Viscardi.»
«Grazie. Fallo entrare e resta qui.»
Guareschi si fece da parte e quello entrò. Alto, bello, abbronzato, con gli occhiali da sole e un sorrisetto alla Ciao, sfigato che gli faceva venir voglia di prenderlo a schiaffoni. Gli stavano sulle palle quelli così. Per principio, più probabilmente per rancore, dato che il commissario Nardelli era tracagnotto, calvo e con la gastrite.
«Si accomodi» gli disse invece.
Quello si accomodò sulla poltroncina davanti alla scrivania, tolse gli occhiali e gli piantò addosso uno sguardo smeraldino che sapeva di barca, calici di prosecco e di un Cazzo ci faccio qui? che non aveva alcun bisogno di essere pronunciato.
«Villa Mandarina, i coniugi Leonetti» fece Nardelli.
L’altro sporse un poco il mento e scosse la testa: «Sono i nuovi proprietari della casa di famiglia. C’è qualche problema?»
Il commissario aprì un cassetto e gli mise davanti una busta trasparente piena di lettere, tutte col timbro Rinviata al mittente: «Le hanno trovate nell’intercapedine di un muro durante i lavori di ristrutturazione. Vuole darci un’occhiata?»
«Per me può anche buttarle, bruciarle, ne faccia quello che vuole, non mi interessa.»
«E invece dovrebbe.»
«Devo dedurre che lei lo abbia già fatto.»
«Mi spiace, ma per come si sono messe le cose, non ne ho potuto fare ameno.»
«Di che sta parlando?»
Nardelli si passò le mani sulla faccia, le lasciò congiunte davanti alla bocca e alla fine decise di prenderla alla larga: «Intanto, condoglianze per suo zio.»
«Sì, grazie. E poi?»
L’altro prese una busta e gliela porse: «Legga, almeno questa. È l’ultima in ordine di datazione. Dopo, credo che sarà più facile parlare.»
Alberto Viscardi serrò la mascella, tolse dalla busta un foglio ingiallito e quando ebbe finito, pallido come un cencio, disse con un filo di voce: «Potrei avere un po’ d’acqua?»
Guareschi scattò in piedi e tornò con un vassoio dove, accanto al bicchiere, fumava un caffè. «Ci ho messo due bustine, lo zucchero aiuta» disse e tornò a sedere.
«Io non immaginavo…» sussurrò Viscardi.
«E come avrebbe potuto?» fece Nardelli. «Sua madre le ha scritto per vent’anni, ma lei non ha mai voluto ascoltarla. Per questo ha messo le lettere nel muro, perché sapeva, o sperava, che prima o poi qualcuno le avrebbe trovate.»
«Se solo avessi saputo…»
«Che avrebbe fatto? Magari sarebbe venuto al funerale. No, non credo, del resto non è venuto nemmeno a quello di suo zio.»
Viscardi abbassò lo sguardo.
«Ma io la capisco, sa? Certe ferite dell’anima non si rimarginano.»
«Anzi si infettano.»
«Già, come quelle di sua madre, che alla fine non ne ha potuto più e ha voluto mettere la parola fine.»
«Credevo fosse stato un incidente.»
«Lo abbiamo creduto tutti. La scogliera sotto la panoramica è una trappola mortale, un attimo e si vola di sotto. Adesso almeno sappiamo che non è stato né per un guasto, né per distrazione.»
Alberto Viscardi guardò le lettere, guardò fuori il cielo terso, prese dalla tasca un fazzoletto e ci soffiò dentro. E alla fine: «Anni, commissario. Che sono fatti di mesi, di settimane, di giorni, di ore» disse con la voce rotta. «E tutti questi, messi insieme, sono stati il mio inferno di bambino. Che sapeva, ma doveva tacere perché i Viscardi sono gente onorata e riverita e nessuno, mai e poi mai, avrebbe dovuto nemmeno sospettare cosa facessero veramente a certi ragazzini durante tutte quelle belle feste, picnic e gite in montagna. Mio padre e mio zio, cittadini esemplari, patroni di iniziative benemerite per la gioventù di Torre Sant’Arcangelo, erano due mostri.»
«È per questo che, appena ha potuto, è andato via.»
«Se lo ricorda Giuliano Moncaldi?»
«Il ragazzo scomparso negli anni ’90.»
«Non scomparso. Tolto di mezzo, appena mio padre ci sorprese nel fienile. Un figlio frocio? Inammissibile.» Viscardi vuotò il bicchiere, drizzò la schiena. «Ma questo lei lo sa già, no? È tutto scritto lì, nella confessione di mia madre.»
Nardelli annuì. L’altro guardò le buste. «Posso tenerle?»
«Guardi, mi piacerebbe tanto dirle di sì, ma non posso.»
«E perché? Ormai la faccenda è conclusa.»
«Non del tutto, purtroppo, non del tutto. È una trama complicata e ci sono ancora tanti fili sospesi.»
«Di che sta parlando?»
«Per esempio del fatto che, una volta cresciuto, avrebbe potuto denunciarli. Perché non lo ha fatto?»
«Me lo sono chiesto mille volte. Non lo so. Forse potrebbe risponderle uno psichiatra.»
«E poi c’è la faccenda di suo zio, la sua morte orribile.»
«Divorato dai maiali. Beh, ci vedo una specie di simmetria, lei no?»
«Simmetria, dice? Interessante. D'altra parte, sono disgrazie che possono succedere, specie a ottant’anni. Uno si affaccia un momento per dare un’occhiata, ha un malore e ci cade dentro.»
«Disgrazie, certo.»
«E infatti Tonio e Pietrino, troppo ubriachi per accorgersi di tutto quel trambusto nella porcilaia, se ne sono accorti il mattino dopo e solo allora ci hanno chiamato. Mi segue?»
«Tonio e Pietrino, sì, erano loro che curavano i maiali. E allora?»
«E allora qui c’è un problema. Eh sì, perché il medico legale, quando ha esaminato quello che restava delle mani e dei piedi di suo zio, ci ha trovato numerose fibre compatibili con una corda. Capisce? Come se fosse stato legato. E se questo fosse vero, sa cosa significa? Che suo zio non c’è caduto là dentro, ma ce lo hanno messo di proposito, sperando che le brave bestiole facessero piazza pulita.»
«Capisco.»
«Beato lei. Perché io invece no. E continuo a chiedermi chi può aver fatto una cosa così terribile? Lei non se lo chiede?»
«Potrei farlo, ma sarebbe inutile.»
«E certo, che ne può sapere lei? Se ne stava dall’altra parte del mondo, aveva tagliato i ponti con tutti da vent’anni. Non fosse per quelle lettere, non sarebbe nemmeno qui adesso.»
«Appunto. Quindi, se non c’è altro, la lascerei al suo lavoro» disse Viscardi e fece per alzarsi.
«Eh no, dell’altro veramente ci sarebbe.»
«Senta, mi dica quello che mi deve dire, ma in fretta se non le dispiace. Ho un aereo tra un’ora.»
«Vita convulsa la sua, mai un attimo di respiro. Non la invidio, sa?»
«Me ne farò una ragione» disse, di nuovo con quel sorrisetto a fior di labbra.
«Perché mi creda, andare sempre di corsa non è una buona cosa. Si superano i limiti senza accorgersene, magari si attraversa un paese, che tanto di notte non c’è nessuno, chi vuoi che ti veda? E invece non solo ti vedono, ma ti scattano pure una foto. Come questa.» E nel dirlo, il commissario aprì un fascicolo e mise sulla scrivania un foglio. «Ammetto che la qualità non sia ottima, però la targa si vede abbastanza bene. La vede?»
«Sì e la riconosco pure. È quella della mia macchina. Ma questo che significa? Non potevo esserci io alla guida, perché la mia macchina è rimasta a qui, io invece ero a Cannes.»
«Ne è proprio sicuro?»
«Certo! Vuole che non sappia dov’ero?»
«Lei sì. Ma io no. Anche perché, guardi è tutto così ingarbugliato che la gastrite mi fa dannare, insomma c’è anche un video.»
«Video, di che cazzo sta parlando?»
«Non si agiti, signor Viscardi, non ce n’è motivo. Lei era a Cannes la notte in cui suo zio è stato ucciso, quindi è tutto a posto. Perché lei era a Cannes, no?»
«Certo che ero lì! Ci sono centinaia di persone che possono confermarlo!»
«Ma sì, al salone nautico Yachting Festival. Abbiamo verificato ed effettivamente lei risulta tra i partecipanti. Non solo, risulta anche tra gli ospiti dell’hotel annesso alla manifestazione. Quindi, le ripeto è tutto a posto. Però… eh però c’è questo video… Gliela vogliamo dare un’occhiatina? Così, per toglierci ogni dubbio.»
Guareschi andò al suo tavolo, prese un portatile e lo mise sulla scrivania.
«È quello della telecamera di sorveglianza del distributore sulla statale» disse il commissario. «E questo…insomma, signor Viscardi, questo sembra proprio lei. Come lo spiega?»
«Lo spiego col fatto che quello è uno stronzo che ha preso la mia auto, i miei vestiti e mi vuole incastrare.»
«E perché dovrebbe?»
«Perché sono l'ultimo della famiglia rimasto in vita, dunque l'unico che da tutta questa faccenda ne trae vantaggio e a qualcuno la cosa non sta bene. Devo dirglielo io, commissario?»
«Qualcuno, eh, si fa presto a dire qualcuno, ma qualcuno chi?
«E che ne so io? Il commissario è lei, faccia il suo lavoro!»
Nardelli, con la fronte aggrottata, continuava a smanettare col mouse. «Comunque ha ragione, perché anche facendo un ingrandimento… Eh no, la faccia non si vede. Dev’essere proprio furbo quello lì, non le pare?»
«Furbo e criminale. Per questo dovrebbe darsi da fare invece di farmi perdere tempo.»
«Ah, ma ci stiamo lavorando, sa? Siamo a tanto così. Una mossa falsa e quello finisce dentro.»
«Bravo. Posso andare adesso?»
«Non la trattengo. Però, lo sa come funziona, devo chiederle di rimanere in zona.»
«Come sarebbe a dire? Non se ne parla nemmeno! Ho i miei impegni io, che crede?»
«E mi dispiace, ma dovranno aspettare. La saluto, signor Viscardi.»
Quello si alzò di scatto e uscì con un bofonchio tra i denti che finiva in ulo.
Il mattino dopo, nella sala ristorante dell’hotel Eden, Alberto Viscardi scese per la colazione, lo vide e si rabbuiò.
«Commissario, che ci fa qui?»
«Buongiorno!» disse quello festoso. «È per i bignè allo zabaione. Nessuno li fa come Ettore. Lo conosce?»
«No.»
«È il cuoco dell’hotel. Un mago, specie in pasticceria. Venga, si accomodi, faccia colazione con me.»
«Grazie, ma non…»
«Oh, non si faccia pregare. Si vede benissimo che ha bisogno di rifocillarsi. Non ha passato una bella nottata, vero?»
«Prendo solo un caffè» disse l’altro cercando con gli occhi il cameriere.
«Ma non va bene. Ci vuole qualcosa di più sostanzioso, dia retta.»
«Senta, commissario, ne ho abbastanza dei suoi giochetti. Che vuole da me?»
«Capire, sciogliere i nodi e rammendare i buchi di questa tela. Perché ce ne sono tanti, sa?»
«Buchi, tela, ma che dice?»
«Mi scusi, è colpa delle zabaione. Mi provoca un flusso di metafore senza controllo.» E nel dirlo addentò un bignè che gli colò sulla camicia. «Però sono interessanti, non trova? Le metafore, intendo. Perché colgono somiglianze tra cose che apparentemente non dovrebbero averne. Eppure non c’è da stupirsi, non più di tanto, almeno. Perché, a ben guardare, il mondo, le cose, perfino le persone, sembrano diversi, ma alla fine non sono altro che giochi combinatori. Prenda un volto, uno qualsiasi, può star certo che da qualche parte ce n’è almeno uno identico, forse più di uno. Basta cercarli. Me l’ha fatto notare mia moglie l’altra sera, mentre curiosava in rete: «Vieni a vedere» mi dice, «guarda che roba!» Era il sito di un fotografo canadese, un certo François Brunelle, lo conosce, vero?»
«Sì, lo conosco.»
«E quindi saprà che ne ha raccolti a centinaia. Non è straordinario? Persone che nemmeno si conoscono e che, senza saperlo, passano tutta la vita con la stessa faccia. Senza saperlo finché non arriva il signor Brunelle che li fa incontrare. E allora questi si guardano, si parlano e chissà cosa si dicono, magari s’intendono, fanno progetti insieme… »
«Non capisco dove vuole arrivare.»
«Arrivare, tornare direi, ai buchi nella trama di tutta questa faccenda. Quelli che devo ricucire. Non è stato facile, ma alla fine ce l’ho fatta. Perché, come dice Sherlock Holmes, Eliminato l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità E di cose improbabili ce n’erano in abbondanza, mi creda. Come il fatto che lei potesse essere al salone nautico di Cannes e nello stesso tempo qui, alla stazione di servizio sulla statale, mezz’ora dopo aver mandato suo zio a cena dai maiali. Vuole un bignè?»
«No» ringhiò Viscardi.
«Non sa che si perde. Dicevo, sembra impossibile che lei possa essere in due posti contemporaneamente. E infatti non c’era. soprattutto non era a Cannes, perché ci ha mandato Hans Müller, il suo sosia, conosciuto nello studio di François Brunelle.»
«È un’idiozia e lei non…»
«Ah sì, a questo punto il sospettato grida sempre qualcosa tipo Lei non ha uno straccio di prova! Ma, vede, noi lo abbiamo trovato Hans Müller, un lavoraccio che non le dico, e quello ci ha confermato tutto. Pensava fosse uno scherzo.»
Nardelli guardò Alberto Viscardi abbandonarsi sullo schienale della poltroncina. Un po’ meno bello di come gli era sembrato in commissariato, un po’ meno Ciao sfigato, barche e Prosecco. Piuttosto esausto invece, come avesse corso tutta la vita, braccato fino allo sfinimento e solo adesso potesse fermarsi a tirare il fiato. Lo guardò e gli fece simpatia, ché tra vittime e carnefici è un attimo scambiarsi di posto. E allora avrebbe anche potuto mettergli una mano sulla spalla, tranquillo, è tutto finito, ma un commissario queste cose non le fa. Dunque finì il suo cappuccino e disse: «Adesso penserà che ho sollevato un polverone tremendo. E la capisco, sa? I polveroni visti da dentro fanno questo effetto. Ma le assicuro che da fuori è tutto diverso. Non devo spiegarglielo, vero?»
«No, non ce n’è bisogno.»
«Invece me la spieghi lei una cosa: perché adesso? Avrebbe potuto fare tante cose già vent’anni fa. Giustizia, per esempio.»
«È una bella domanda. Potrei dirle che è stato per i soldi, lei avrà sicuramente controllato la mia situazione, saprà che sono sull’orlo della bancarotta e potrebbe anche crederci. Ma alla fine, i soldi sono soltanto soldi.»
«Se vuole possiamo far finta di accontentarci di questa spiegazione, però sappiamo entrambi che è più complicato. Credo sia una questione che ha a che fare col dolore, sbaglio?»
«No, commissario, non sbaglia. Il dolore è un veleno molto potente, specie se somministrato a un bambino con l’ordine di tenerselo dentro. E lui lo fa, perché è un bambino ubbidiente. Lo fa per anni, venti per la precisione. Però quello, il veleno, nel frattempo si addensa, diventa rancore, e alla fine si è trasformato in odio allo stato puro. Immagino che, col mestiere che fa, sappia benissimo come funziona l’odio.»
«Sì, dà alla testa e può trasformare anche le brave persone in mostri capaci di fare cose orribili.»
«Una persona carica d’odio è una mina vagante, basta niente per farla esplodere. Una richiesta d’aiuto trattata con disprezzo, una minaccia di distruggere tutto ancora una volta. E quindi sì, commissario, sono tornato. Mi è costato molto, ma avevo bisogno di mio zio, dei suoi maledetti soldi. Volevo solo parlargli, convincerlo, ma lui mi ha riso in faccia. «Levatelo dalla testa, non vendo. La casa, i terreni, il bestiame, è tutta roba mia e tu non puoi farci niente.» Così mi ha detto. «E adesso vattene se non vuoi che dica a tutti chi sei, che da queste parti i froci non li trattano coi guanti.» Si è alzato, è andato a versarsi del gin. E ha fato l’errore di voltarmi le spalle. Non c’è voluto molto. Un vecchio di ottant’anni, lo capisce da sé.»
«Sì, è una storia interessante, ma devo dirle che la versione del raptus regge poco, dovrebbe rivederla. Se avesse voluto soltanto parlare, non avrebbe architettato tutta questa messa in scena. No, lei è venuto qui con l’intenzione di uccidere, convinto di cancellare definitivamente un passato di abusi e violenze. Chissà, se lui avesse accettato le sue richieste, se lo avesse trattato con più comprensione, magari le cose sarebbero andate in un altro modo. Ma in fondo lo sapeva che non sarebbe accaduto. Le persone non cambiano.»
«Già, una carogna resta sempre una carogna. E la sa una cosa? Pensavo che dopo sarei stato meglio, finalmente libero. Invece no. Non è così.
«Non lo è mai. Non per le brave persone.»
«Come mia madre.»
«Come lei, signor Viscardi.»
«Ma ormai è troppo tardi, vero?»
«Purtroppo sì.»
Alberto Viscardi guardò l’ultimo bignè allo zabaione. «Posso?»
«È tutto suo.»