[CPQ25] Un sacrificio per la rinascita
Posted: Wed Apr 23, 2025 4:44 pm
Se tu fossi eterno amore io dovrei essere il poeta che descrive il tormento della rinascita.
Curiosa coincidenza questa traccia, perché qualche giorno fa mia nipote — terza media, curiosa e con molte domande— ha chiesto il mio aiuto per decifrare — così ha detto — una poesia di Pablo Neruda tratta dal Canto General, suppongo per una delle solite tesine che gli insegnanti amano tirar fuori come conigli dal cilindro. E infatti non sapeva nulla di Neruda e ancor meno del Cile: a quell’età le loro letture, se proprio gira bene, sono sconclusionate saghe fantasy scollegate dalla realtà. Così le raccontai una storia.
“Arrivai a Santiago per la prima volta verso la metà degli anni Ottanta. Del paese sapevo poco o nulla, la politica non mi interessava e di storia sapevo quelle quattro stupidate che a scuola si appiccicano alla memoria prima di essere del tutto dimenticate. Sapevo però che al governo c’era un generale. Uno di quelli buoni, mi avevano assicurato all’ambasciata del Cile in Italia quando mi avevano rilasciato il visto. Partecipavo a un programma di scambio tra la mia e la Universidad Catòlica de Chile e in ospedale tra le tante persone nuove conobbi una giovane collega, naturalmente non sapevo chi fosse né potevo saperlo, che lavorava nel mio stesso reparto. I cileni sono in genere cordiali con gli europei, nutrono anzi una specie di senso di inferiorità culturale per chi proviene dal vecchio mondo che, capii subito, influenzava i rapporti lavorativi quanto quelli personali. Lei però era diversa, non se ne curava di questa mia manifesta diversità, sembrava appartenere a un altro universo. Mi accorsi presto che molti altri colleghi e molti infermieri tendevano a starle alla larga, sembrava una specie di appestata. Era un venerdì santo di un piovoso pomeriggio autunnale quando ci trovammo sole di turno, io come specializzanda e lei come giovane medico quasi strutturato. E complice il lungo weekend pasquale il reparto era anche deserto di pazienti. Ci venne naturale iniziare a parlare, all’inizio del più e del meno. Pareva una persona normale, equilibrata, intelligente, preparata. Non mi sembrò impressionarsi quando le dissi che ero proprio italiana, che venivo da un piccolo centro non distante da Roma. Di quel primo scambio ricordo il suo sorriso triste e i suoi modi di fare piuttosto spicci e nervosi.
Tra una confidenza e l’altra lei mi rivelò di aver vissuto per parecchi anni a Berlino, di non avere legami affettivi a Santiago, che la sua famiglia era fuggita tutta all’estero, ma cambiò argomento quando le dissi delle mie impressioni sul comportamento dei colleghi e sulla situazione del paese.
Non so perché, ma nonostante le diversità in breve tempo diventammo, non dico amiche ma buone colleghe. Forse perché io ero l’unica che la trattava con normalità. Ma più mi avvicinavo a lei più, gli altri si allontanavano da me.”
Santiago era già a quei tempi sconfinata. Le sue infinite avenidas legavano la città alle sue periferie, come le arterie il cuore al sistema venoso, prima di perdersi nella puna, quella macchia che è una caratteristica della vegetazione cilena. La città si trova quasi al centro della stretta pianura interna che attraversa quasi tutto il Cile da Sud a Nord, stretta tra la Cordigliera andina e l’oceano Pacifico. Mentre Valparaìso è distante una settantina di chilometri, abbarbicata alle sue colline a picco sul mare e, a differenza della capitale che somiglia anche nel clima a un’austera città centro europea, è coloratissima e vivacissima e sono curiosi i suoi ascensores che si arrampicano lungo i declivi e si sostituiscono alle strade.
“Un giorno Michelle aveva promesso di farmi visitare le città costiere e, per incoraggiarmi, mi aveva raccontato che dalla playa Torpederas di Valparaiso si impiegavano appena dieci minuti in macchina per raggiungere Isla Negra.
Avevo imparato ad apprezzare la sua poesia in quei mesi, in quei luoghi dove si poteva capire il motivo di tanta malinconia e di tanta vitalità. Michelle mi aveva raccontato che aveva poco più di trent’anni quando il poeta acquistò il terreno da un marinaio spagnolo che aveva pensato di metter su casa alla fine del mondo. Non c’era nulla a quel tempo, disse, solo una mulattiera che portava in città e sul terreno una capanna di pietra a poche decine di metri dal mare, senza corrente elettrica, senza acqua corrente, senza un bagno, senza fognature. Ricardo Reyes, a pensarci adesso il nome era una fenomenale coincidenza, un incredibile gioco del destino.”
Mia nipote mi stupisce ancora quando subito mi chiede il motivo. Gli adolescenti vanno matti per i misteri, vai a capire il perché. E io ho tirato fuori dagli scaffali un vecchio romanzo. L’anno della morte di Ricardo Reis e le ho spiegato chi fosse.
“Michelle mi aveva proposto di andare a Valparaiso e poi a Isla Negra una domenica che eravamo libere dal servizio. L’occasione capitò nel mese di luglio, non estate ma pieno inverno, e a Santiago gli inverni sono freddi. Sul mare invece le temperature, scoprii, erano più gradevoli. Avevo preso a noleggio una piccola macchina per muovermi a Santiago in quei mesi, mentre Michelle mi aveva detto che non aveva la patente. Quando fui sotto casa sua scese e si scusò, mi disse che dall’ospedale l’avevano chiamata per un’urgenza. Era verosimile e non le dissi niente, mi offrii di accompagnarla, ma lei mi disse che aveva già chiamato un taxi. Mi pregò di non rinunciare e di proseguire da sola e che, al bar Miraflores all’ingresso di Viňa del Mar, un suo amico mi avrebbe fatto da guida e mi avrebbe portato a Isla Negra.
«Lui ha le chiavi della casa. Conosce molto bene donna Matilda. È la vedova di Neruda. Ti farà da chaperon e ti racconterà delle belle storie.»
A quei tempi ero ingenua, non avevo ancora fatto a botte col mondo. Prima di partire Michelle mi consegnò una busta chiusa.
«Dalla a Martìn» mi disse.
L’uomo si fece trovare nel bar dove Michelle mi aveva detto e si mostrò subito cordiale. Era bellissimo, alto, biondo, imponente, aveva intensi occhi azzurri che parevano entrarti dentro l’anima e un volto sereno che offriva un senso di sicurezza. Mi fece fare un giro di Viňa del Mar e poi di Valparaiso prima di portarmi a Isla Negra. E mi raccontò che lui conosceva molto bene la vedova di Ricardo Reyes e che si poteva dire che era cresciuto con Pablo da bambino.
«Matilda quando voglio mi dà le chiavi di casa, perché questo è un posto sicuro, in cui a nessuno verrebbe in mente di cercarmi.»
Non volli indagare, ma quell’accenno mi inquietò. Ormai stavo in Cile da abbastanza tempo da aver capito che quel giorno in ambasciata mi avevano mentito. Quello seduto a La Moneda non era un generale buono dopotutto e a Santiago la situazione era piuttosto pesante e gli umori generali erano piuttosto tetri.
Posteggiai davanti la grande casa totalmente nascosta dalla vegetazione, a cui si arrivava da una stradina sterrata che si diramava per un breve tratto dalla statale. Il mare non si vedeva, eppure si sentiva che era vicinissimo. Martìn mi fece entrare da un ingresso laterale piuttosto nascosto. Da cui, attraverso un corridoio simile a un lungo budello rivestito di roccia lavica, arrivammo allo studio. Il sole era già basso, ma la vetrata era così ampia che filtrava tutta la luce disponibile e si aveva l’incredibile impressione di entrare dentro l’oceano Pacifico, di trovarsi in mezzo alle sue onde gigantesche che invece si rompevano qualche decina di metri più in basso, sulle rocce vulcaniche del bagnasciuga infinito che terminava alla fine del mondo. Dove l’oceano non è ancora terra e dove la terra nera pare nettarsi delle sue tetre angosce tra le onde, mentre le araucarias dagli alti fusti si stagliano nel cielo, gigantesche a imitare il mare, come sentinelle di terra davanti all’eterno tramestio del vento e delle onde.”
Capisco perché proprio lì avevi scelto di ritirarti dal mondo, perché avevi scelto di tornare proprio lì dopo il lungo esilio. A Isla Negra avevi conosciuto l’amore, avevi visto l’autunno tingere le foglie d’oro e lasciarle volare via, avevi sentito il freddo dell’inverno e la carezza del fuoco nelle notti solitarie, e ti eri lasciato avvolgere dall’estate rotonda e generosa. Poi, però, avevi sentito che era giunto il momento di lasciare andare. Seduto su un muretto a secco, osservavi il paesaggio punteggiato da immense araucarie, i tronchi contorti come storie scritte nel tempo. A occhi chiusi solo là sentivi di permetterti il lusso di essere quel granellino di sabbia del caos del mondo.
Chiesi a Martìn se quelli erano proprio i suoi libri. Se fosse veramente quella la sua scrivania.
L’uomo annuì. Mi disse che aveva scritto su quel ripiano fino al 22 settembre 1973.
«Poi l’hanno ammazzato.»
«Credevo fosse morto di tumore.»
Lui mi sorrise. Poi si accorse che c’era un uomo nel giardino di fronte al mare.
Cambiò umore e mi chiese di aspettarlo là.
Dopo qualche minuto tornò dentro e sembrava rasserenato, mi disse che era solo un turista tedesco che si era perso.
«Michelle ti ha dato qualcosa per me?»
Gli consegnai la lettera e in quell’istante compresi che ero la vittima sacrificabile di un gioco più grande di me.
Prese la busta, diede una rapida occhiata all’interno e mi fece proseguire la visita, come se tutto fosse normale. Più andavamo avanti e più capivo che quella casa era stata costruita come fosse una nave e lo studio a prua, con le sue vetrate affacciate sull’oceano, ne era la plancia di comando.
Poi Martìn mi disse che Ricardo era tornato qui dopo l’esilio e la fine della dittatura di Videla.
«Poi un dittatore ancor più sanguinario del primo l’ha fatto ammazzare.»
Scossi la testa disorientata non sapendo cosa dire.
Lui lesse il mio imbarazzo e si mise a ridere.
«Scommetto che proprio non lo sai chi è Michelle.»
Rideva, mi provocava.
«Una collega» gli risposi.
E allora mi raccontò la storia di Michelle: la figlia del generale Alberto Bachelet Martinez, ministro del governo Allende ammazzato per ordine della giunta militare nel lager di Villa Grimaldi per non aver aderito al colpo di stato e non aver rinnegato Salvador Allende e la Costituzione repubblicana.
Il nome non mi diceva nulla, la politica non era stata mai il mio forte e capii che la mia ignoranza mi stava mettendo in pericolo.
«Anche lei è finita a Villa Grimaldi con la madre. È stata torturata insieme a lei da Manuel Contreras in persona. È il padre padrone della DINA...»
E al mio sguardo interrogativo mormorò: «Neanche questo sai. È la polizia politica. Se cadi nelle sue mani sei finito. A Michelle hanno fatto cose orribili per mesi. L’hanno…» ma le parole gli morirono in bocca. «Voi italiani nemmeno immaginate cosa ci hanno fatto.»
Con gli occhi lo supplicai di continuare.
«È uscita da Villa Grimaldi grazie all’interessamento della Santa Sede e alle insistenze dell’Unione Sovietica. È andata in esilio con la madre. Si sono rifugiate nella Germania Democratica. E lei è appena tornata da Berlino Est.»
Quando Michelle me lo aveva detto avevo subito pensato a Berlino Ovest. Non immaginavo neanche che ci si potesse rifugiare oltre la Cortina di Ferro.
«La Germania comunista?»
Mi guardò come si guardano gli illusi. Quelli che mentre il Titanic affonda giocano a whist, bevono champagne e ascoltano l’orchestra suonare i valzer di Strauss.
«Proprio quella. I comunisti sono stati gli unici a concedere l’asilo politico ai cileni in fuga dal regime. Per le nazioni occidentali Pinochet è tuttora un galantuomo e in Cile godiamo di ogni genere di libertà politica e civile, eccetto quella di professare le nostre idee.»
Riuscii a balbettare soltanto un mi dispiace. E per la prima volta nella mia vita mi resi conto che nel rapporto tra l’Occidente e gli altri paesi c’era qualcosa di marcio che veniva accuratamente nascosto, a noi che non meritavano di sapere, forse neanche più capaci di sapere.
Gli chiesi perché fosse tornata. E provai pena per lei e anche paura per me, in compagnia di quell’uomo che non sapevo chi in realtà fosse e che intuivo in una condizione di clandestinità.
Poi il telefono di casa iniziò a squillare e dalle risposte compresi che c’era Michelle all’altro capo del telefono.
Preferii lasciarli in pace e andai fuori. Il freddo sole invernale stava tramontando sull’Oceano. Mi ritrovai sola, circondata dal vento e dal fragore dell’oceano.
Avanzai fino al muretto di pietra che fronteggiava il mare. Il cielo si stava tingendo di un rosso liquido, e l’acqua ne rifletteva i bagliori come vetro fuso.”
Fu allora che lo vidi.
Seduto lì, mentre l’ombra delle gigantesche araucarie si allungava alle sue spalle. Era il poeta, era ancora presente. La sua sagoma sembrava confondersi con la pietra, con la memoria di quel luogo.
Mi accorsi che non era solo.
Matilda Urrutia era accanto a lui, il volto illuminato dagli ultimi raggi del sole.
Li osservai, senza muovermi, senza respirare.
Perché te ne vai?
La voce sembrava un soffio nel vento. Era lei a parlare.
Lui sorrise, appena. Non me ne vado, risponde. Sto solo diventando qualcosa di nuovo.
L’oceano tuonava, si infrangeva sulle rocce, e la sua voce si mescolava al rumore delle onde.
Matilda si muoveva accanto a lui, i sassi sotto i loro piedi scricchiolavano piano.
Hai sempre parlato come se fossi una stagione, disse. "Come se il tempo decidesse chi sei.
Perché è così, socchiuse gli occhi. Sono autunno quando lascio andare, inverno quando resto solo, estate quando amo e primavera quando rinasco.
Matilda abbassò lo sguardo. E ora? Quale stagione sei?
Le loro voci diventavano parte del vento. Sentivo le loro parole come se fossero destinate a me.
Alla fine, il poeta rispose: Sto per rinascere.
Lei sorrise, perché aveva compreso. Non era la fine. Le chiedeva il permesso di nascere ancora.
Era la memoria di un luogo che continuava a respirare, a esistere.
E in quel momento compresi anch’io. Non era solo una visione.
Ora osservo gli occhi di mia nipote e spero che in una scintilla.
Mi chiede invece se Pablo Neruda e Ricardo Reyes sono la stessa persona.
Mi sento come un novello Prometeo, incatenata al nozionismo burocratico della scuola italiana mentre i social network mi mangiano il fegato.
“Era un pseudonimo” le dico. “Neruda è un poeta cecoslovacco. Ma stranamente il vero nome di Ricardo Reyes somiglia all’eteronimo di Pessoa che morì l’anno prima che lui acquistasse il terreno di Isla Negra, così la chiamò lui, mezzo secolo prima che io ci capitassi in quelle strane circostanze.”
“E la tua collega, Michelle, che fine ha fatto?”
Questa volta ha fatto centro e io mi vergogno a ricordarlo.
“Da quel giorno ho preferito non incontrarla. Quando lasciai il paese Michelle però mi venne a salutare all’aeroporto. Si scusò per avermi fatto incontrare Alex quel giorno. Si scusò di avermi usata con l’intento di fargli avere un messaggio, perché lei, mi disse, sapeva di essere pedinata e lui viveva in clandestinità. Mi rivelò che quel giorno gli aveva detto addio. E poi mi disse che aveva troppe cicatrici addosso, e che in altre circostanze avremmo potuto essere amiche, ma che lei adesso aveva troppa rabbia in corpo e che aveva un’unica missione: impegnarsi per offrire una speranza di rinascita alla sua gente. Non l’ho più vista né sentita. Venti anni dopo quell’addio è diventata presidente del Cile per due mandati. Alex, ho saputo in Italia il nome completo, Alex Vojkovic Tries, aveva attentato alla vita di Pinochet due mesi prima del nostro incontro e la sua squadra aveva ucciso la scorta e il nipote del generale senza riuscire ad arrivare a lui. Nel 2015 ho letto che era morto in circostanze misteriose in quella stessa strada in cui l’avevo visto per l’ultima volta. Chissà, forse una vendetta fredda di quelle forze che rimangono sempre nell’ombra anche quando tutto pare finito.”
Vedo curiosità negli occhi di mia nipote, che scompare non appena il suo smartphone inizia a proporre notifiche di stupide chat.
La osservo sconsolata e mi chiedo qual è il senso della sofferenza dell’uomo. Come il poeta penso che sia un sacrificio. Un sacrificio per la rinascita.
Curiosa coincidenza questa traccia, perché qualche giorno fa mia nipote — terza media, curiosa e con molte domande— ha chiesto il mio aiuto per decifrare — così ha detto — una poesia di Pablo Neruda tratta dal Canto General, suppongo per una delle solite tesine che gli insegnanti amano tirar fuori come conigli dal cilindro. E infatti non sapeva nulla di Neruda e ancor meno del Cile: a quell’età le loro letture, se proprio gira bene, sono sconclusionate saghe fantasy scollegate dalla realtà. Così le raccontai una storia.
“Arrivai a Santiago per la prima volta verso la metà degli anni Ottanta. Del paese sapevo poco o nulla, la politica non mi interessava e di storia sapevo quelle quattro stupidate che a scuola si appiccicano alla memoria prima di essere del tutto dimenticate. Sapevo però che al governo c’era un generale. Uno di quelli buoni, mi avevano assicurato all’ambasciata del Cile in Italia quando mi avevano rilasciato il visto. Partecipavo a un programma di scambio tra la mia e la Universidad Catòlica de Chile e in ospedale tra le tante persone nuove conobbi una giovane collega, naturalmente non sapevo chi fosse né potevo saperlo, che lavorava nel mio stesso reparto. I cileni sono in genere cordiali con gli europei, nutrono anzi una specie di senso di inferiorità culturale per chi proviene dal vecchio mondo che, capii subito, influenzava i rapporti lavorativi quanto quelli personali. Lei però era diversa, non se ne curava di questa mia manifesta diversità, sembrava appartenere a un altro universo. Mi accorsi presto che molti altri colleghi e molti infermieri tendevano a starle alla larga, sembrava una specie di appestata. Era un venerdì santo di un piovoso pomeriggio autunnale quando ci trovammo sole di turno, io come specializzanda e lei come giovane medico quasi strutturato. E complice il lungo weekend pasquale il reparto era anche deserto di pazienti. Ci venne naturale iniziare a parlare, all’inizio del più e del meno. Pareva una persona normale, equilibrata, intelligente, preparata. Non mi sembrò impressionarsi quando le dissi che ero proprio italiana, che venivo da un piccolo centro non distante da Roma. Di quel primo scambio ricordo il suo sorriso triste e i suoi modi di fare piuttosto spicci e nervosi.
Tra una confidenza e l’altra lei mi rivelò di aver vissuto per parecchi anni a Berlino, di non avere legami affettivi a Santiago, che la sua famiglia era fuggita tutta all’estero, ma cambiò argomento quando le dissi delle mie impressioni sul comportamento dei colleghi e sulla situazione del paese.
Non so perché, ma nonostante le diversità in breve tempo diventammo, non dico amiche ma buone colleghe. Forse perché io ero l’unica che la trattava con normalità. Ma più mi avvicinavo a lei più, gli altri si allontanavano da me.”
Santiago era già a quei tempi sconfinata. Le sue infinite avenidas legavano la città alle sue periferie, come le arterie il cuore al sistema venoso, prima di perdersi nella puna, quella macchia che è una caratteristica della vegetazione cilena. La città si trova quasi al centro della stretta pianura interna che attraversa quasi tutto il Cile da Sud a Nord, stretta tra la Cordigliera andina e l’oceano Pacifico. Mentre Valparaìso è distante una settantina di chilometri, abbarbicata alle sue colline a picco sul mare e, a differenza della capitale che somiglia anche nel clima a un’austera città centro europea, è coloratissima e vivacissima e sono curiosi i suoi ascensores che si arrampicano lungo i declivi e si sostituiscono alle strade.
“Un giorno Michelle aveva promesso di farmi visitare le città costiere e, per incoraggiarmi, mi aveva raccontato che dalla playa Torpederas di Valparaiso si impiegavano appena dieci minuti in macchina per raggiungere Isla Negra.
Avevo imparato ad apprezzare la sua poesia in quei mesi, in quei luoghi dove si poteva capire il motivo di tanta malinconia e di tanta vitalità. Michelle mi aveva raccontato che aveva poco più di trent’anni quando il poeta acquistò il terreno da un marinaio spagnolo che aveva pensato di metter su casa alla fine del mondo. Non c’era nulla a quel tempo, disse, solo una mulattiera che portava in città e sul terreno una capanna di pietra a poche decine di metri dal mare, senza corrente elettrica, senza acqua corrente, senza un bagno, senza fognature. Ricardo Reyes, a pensarci adesso il nome era una fenomenale coincidenza, un incredibile gioco del destino.”
Mia nipote mi stupisce ancora quando subito mi chiede il motivo. Gli adolescenti vanno matti per i misteri, vai a capire il perché. E io ho tirato fuori dagli scaffali un vecchio romanzo. L’anno della morte di Ricardo Reis e le ho spiegato chi fosse.
“Michelle mi aveva proposto di andare a Valparaiso e poi a Isla Negra una domenica che eravamo libere dal servizio. L’occasione capitò nel mese di luglio, non estate ma pieno inverno, e a Santiago gli inverni sono freddi. Sul mare invece le temperature, scoprii, erano più gradevoli. Avevo preso a noleggio una piccola macchina per muovermi a Santiago in quei mesi, mentre Michelle mi aveva detto che non aveva la patente. Quando fui sotto casa sua scese e si scusò, mi disse che dall’ospedale l’avevano chiamata per un’urgenza. Era verosimile e non le dissi niente, mi offrii di accompagnarla, ma lei mi disse che aveva già chiamato un taxi. Mi pregò di non rinunciare e di proseguire da sola e che, al bar Miraflores all’ingresso di Viňa del Mar, un suo amico mi avrebbe fatto da guida e mi avrebbe portato a Isla Negra.
«Lui ha le chiavi della casa. Conosce molto bene donna Matilda. È la vedova di Neruda. Ti farà da chaperon e ti racconterà delle belle storie.»
A quei tempi ero ingenua, non avevo ancora fatto a botte col mondo. Prima di partire Michelle mi consegnò una busta chiusa.
«Dalla a Martìn» mi disse.
L’uomo si fece trovare nel bar dove Michelle mi aveva detto e si mostrò subito cordiale. Era bellissimo, alto, biondo, imponente, aveva intensi occhi azzurri che parevano entrarti dentro l’anima e un volto sereno che offriva un senso di sicurezza. Mi fece fare un giro di Viňa del Mar e poi di Valparaiso prima di portarmi a Isla Negra. E mi raccontò che lui conosceva molto bene la vedova di Ricardo Reyes e che si poteva dire che era cresciuto con Pablo da bambino.
«Matilda quando voglio mi dà le chiavi di casa, perché questo è un posto sicuro, in cui a nessuno verrebbe in mente di cercarmi.»
Non volli indagare, ma quell’accenno mi inquietò. Ormai stavo in Cile da abbastanza tempo da aver capito che quel giorno in ambasciata mi avevano mentito. Quello seduto a La Moneda non era un generale buono dopotutto e a Santiago la situazione era piuttosto pesante e gli umori generali erano piuttosto tetri.
Posteggiai davanti la grande casa totalmente nascosta dalla vegetazione, a cui si arrivava da una stradina sterrata che si diramava per un breve tratto dalla statale. Il mare non si vedeva, eppure si sentiva che era vicinissimo. Martìn mi fece entrare da un ingresso laterale piuttosto nascosto. Da cui, attraverso un corridoio simile a un lungo budello rivestito di roccia lavica, arrivammo allo studio. Il sole era già basso, ma la vetrata era così ampia che filtrava tutta la luce disponibile e si aveva l’incredibile impressione di entrare dentro l’oceano Pacifico, di trovarsi in mezzo alle sue onde gigantesche che invece si rompevano qualche decina di metri più in basso, sulle rocce vulcaniche del bagnasciuga infinito che terminava alla fine del mondo. Dove l’oceano non è ancora terra e dove la terra nera pare nettarsi delle sue tetre angosce tra le onde, mentre le araucarias dagli alti fusti si stagliano nel cielo, gigantesche a imitare il mare, come sentinelle di terra davanti all’eterno tramestio del vento e delle onde.”
Capisco perché proprio lì avevi scelto di ritirarti dal mondo, perché avevi scelto di tornare proprio lì dopo il lungo esilio. A Isla Negra avevi conosciuto l’amore, avevi visto l’autunno tingere le foglie d’oro e lasciarle volare via, avevi sentito il freddo dell’inverno e la carezza del fuoco nelle notti solitarie, e ti eri lasciato avvolgere dall’estate rotonda e generosa. Poi, però, avevi sentito che era giunto il momento di lasciare andare. Seduto su un muretto a secco, osservavi il paesaggio punteggiato da immense araucarie, i tronchi contorti come storie scritte nel tempo. A occhi chiusi solo là sentivi di permetterti il lusso di essere quel granellino di sabbia del caos del mondo.
Chiesi a Martìn se quelli erano proprio i suoi libri. Se fosse veramente quella la sua scrivania.
L’uomo annuì. Mi disse che aveva scritto su quel ripiano fino al 22 settembre 1973.
«Poi l’hanno ammazzato.»
«Credevo fosse morto di tumore.»
Lui mi sorrise. Poi si accorse che c’era un uomo nel giardino di fronte al mare.
Cambiò umore e mi chiese di aspettarlo là.
Dopo qualche minuto tornò dentro e sembrava rasserenato, mi disse che era solo un turista tedesco che si era perso.
«Michelle ti ha dato qualcosa per me?»
Gli consegnai la lettera e in quell’istante compresi che ero la vittima sacrificabile di un gioco più grande di me.
Prese la busta, diede una rapida occhiata all’interno e mi fece proseguire la visita, come se tutto fosse normale. Più andavamo avanti e più capivo che quella casa era stata costruita come fosse una nave e lo studio a prua, con le sue vetrate affacciate sull’oceano, ne era la plancia di comando.
Poi Martìn mi disse che Ricardo era tornato qui dopo l’esilio e la fine della dittatura di Videla.
«Poi un dittatore ancor più sanguinario del primo l’ha fatto ammazzare.»
Scossi la testa disorientata non sapendo cosa dire.
Lui lesse il mio imbarazzo e si mise a ridere.
«Scommetto che proprio non lo sai chi è Michelle.»
Rideva, mi provocava.
«Una collega» gli risposi.
E allora mi raccontò la storia di Michelle: la figlia del generale Alberto Bachelet Martinez, ministro del governo Allende ammazzato per ordine della giunta militare nel lager di Villa Grimaldi per non aver aderito al colpo di stato e non aver rinnegato Salvador Allende e la Costituzione repubblicana.
Il nome non mi diceva nulla, la politica non era stata mai il mio forte e capii che la mia ignoranza mi stava mettendo in pericolo.
«Anche lei è finita a Villa Grimaldi con la madre. È stata torturata insieme a lei da Manuel Contreras in persona. È il padre padrone della DINA...»
E al mio sguardo interrogativo mormorò: «Neanche questo sai. È la polizia politica. Se cadi nelle sue mani sei finito. A Michelle hanno fatto cose orribili per mesi. L’hanno…» ma le parole gli morirono in bocca. «Voi italiani nemmeno immaginate cosa ci hanno fatto.»
Con gli occhi lo supplicai di continuare.
«È uscita da Villa Grimaldi grazie all’interessamento della Santa Sede e alle insistenze dell’Unione Sovietica. È andata in esilio con la madre. Si sono rifugiate nella Germania Democratica. E lei è appena tornata da Berlino Est.»
Quando Michelle me lo aveva detto avevo subito pensato a Berlino Ovest. Non immaginavo neanche che ci si potesse rifugiare oltre la Cortina di Ferro.
«La Germania comunista?»
Mi guardò come si guardano gli illusi. Quelli che mentre il Titanic affonda giocano a whist, bevono champagne e ascoltano l’orchestra suonare i valzer di Strauss.
«Proprio quella. I comunisti sono stati gli unici a concedere l’asilo politico ai cileni in fuga dal regime. Per le nazioni occidentali Pinochet è tuttora un galantuomo e in Cile godiamo di ogni genere di libertà politica e civile, eccetto quella di professare le nostre idee.»
Riuscii a balbettare soltanto un mi dispiace. E per la prima volta nella mia vita mi resi conto che nel rapporto tra l’Occidente e gli altri paesi c’era qualcosa di marcio che veniva accuratamente nascosto, a noi che non meritavano di sapere, forse neanche più capaci di sapere.
Gli chiesi perché fosse tornata. E provai pena per lei e anche paura per me, in compagnia di quell’uomo che non sapevo chi in realtà fosse e che intuivo in una condizione di clandestinità.
Poi il telefono di casa iniziò a squillare e dalle risposte compresi che c’era Michelle all’altro capo del telefono.
Preferii lasciarli in pace e andai fuori. Il freddo sole invernale stava tramontando sull’Oceano. Mi ritrovai sola, circondata dal vento e dal fragore dell’oceano.
Avanzai fino al muretto di pietra che fronteggiava il mare. Il cielo si stava tingendo di un rosso liquido, e l’acqua ne rifletteva i bagliori come vetro fuso.”
Fu allora che lo vidi.
Seduto lì, mentre l’ombra delle gigantesche araucarie si allungava alle sue spalle. Era il poeta, era ancora presente. La sua sagoma sembrava confondersi con la pietra, con la memoria di quel luogo.
Mi accorsi che non era solo.
Matilda Urrutia era accanto a lui, il volto illuminato dagli ultimi raggi del sole.
Li osservai, senza muovermi, senza respirare.
Perché te ne vai?
La voce sembrava un soffio nel vento. Era lei a parlare.
Lui sorrise, appena. Non me ne vado, risponde. Sto solo diventando qualcosa di nuovo.
L’oceano tuonava, si infrangeva sulle rocce, e la sua voce si mescolava al rumore delle onde.
Matilda si muoveva accanto a lui, i sassi sotto i loro piedi scricchiolavano piano.
Hai sempre parlato come se fossi una stagione, disse. "Come se il tempo decidesse chi sei.
Perché è così, socchiuse gli occhi. Sono autunno quando lascio andare, inverno quando resto solo, estate quando amo e primavera quando rinasco.
Matilda abbassò lo sguardo. E ora? Quale stagione sei?
Le loro voci diventavano parte del vento. Sentivo le loro parole come se fossero destinate a me.
Alla fine, il poeta rispose: Sto per rinascere.
Lei sorrise, perché aveva compreso. Non era la fine. Le chiedeva il permesso di nascere ancora.
Era la memoria di un luogo che continuava a respirare, a esistere.
E in quel momento compresi anch’io. Non era solo una visione.
Ora osservo gli occhi di mia nipote e spero che in una scintilla.
Mi chiede invece se Pablo Neruda e Ricardo Reyes sono la stessa persona.
Mi sento come un novello Prometeo, incatenata al nozionismo burocratico della scuola italiana mentre i social network mi mangiano il fegato.
“Era un pseudonimo” le dico. “Neruda è un poeta cecoslovacco. Ma stranamente il vero nome di Ricardo Reyes somiglia all’eteronimo di Pessoa che morì l’anno prima che lui acquistasse il terreno di Isla Negra, così la chiamò lui, mezzo secolo prima che io ci capitassi in quelle strane circostanze.”
“E la tua collega, Michelle, che fine ha fatto?”
Questa volta ha fatto centro e io mi vergogno a ricordarlo.
“Da quel giorno ho preferito non incontrarla. Quando lasciai il paese Michelle però mi venne a salutare all’aeroporto. Si scusò per avermi fatto incontrare Alex quel giorno. Si scusò di avermi usata con l’intento di fargli avere un messaggio, perché lei, mi disse, sapeva di essere pedinata e lui viveva in clandestinità. Mi rivelò che quel giorno gli aveva detto addio. E poi mi disse che aveva troppe cicatrici addosso, e che in altre circostanze avremmo potuto essere amiche, ma che lei adesso aveva troppa rabbia in corpo e che aveva un’unica missione: impegnarsi per offrire una speranza di rinascita alla sua gente. Non l’ho più vista né sentita. Venti anni dopo quell’addio è diventata presidente del Cile per due mandati. Alex, ho saputo in Italia il nome completo, Alex Vojkovic Tries, aveva attentato alla vita di Pinochet due mesi prima del nostro incontro e la sua squadra aveva ucciso la scorta e il nipote del generale senza riuscire ad arrivare a lui. Nel 2015 ho letto che era morto in circostanze misteriose in quella stessa strada in cui l’avevo visto per l’ultima volta. Chissà, forse una vendetta fredda di quelle forze che rimangono sempre nell’ombra anche quando tutto pare finito.”
Vedo curiosità negli occhi di mia nipote, che scompare non appena il suo smartphone inizia a proporre notifiche di stupide chat.
La osservo sconsolata e mi chiedo qual è il senso della sofferenza dell’uomo. Come il poeta penso che sia un sacrificio. Un sacrificio per la rinascita.