[CPQ 25] Tempus fugit
Posted: Tue Apr 22, 2025 7:58 pm
Non ti resta che un soffio di fiato. L’ultimo respiro, l’ultimo sbuffo di vita. Sei riverso a terra, lordato del tuo stesso sangue, i muscoli immobili, la vista offuscata. Intorno a te, il vociare di una città che brulica e continuerà ad andare avanti, ignara della tua assenza. È stata una lama, o un colpo di pistola, una spinta accidentale che ti ha spappolato il cranio: non importerà a nessuno, non per davvero. O comunque, non importerà a te. Non più.
La vita finisce e lascia a malapena la puzza di marcio del tuo corpo in decomposizione. Puoi solo sperare che l’odore di putrido perduri, lasciando di te un ricordo sgradevole, ma lungo abbastanza da penetrare nella testa di quelli che passeranno. Poi, tutto finisce lo stesso. Inesorabilmente, anche quel poco che resta svanisce e il vento torna a soffiare, portando con sé altri odori, altre voci, altri ricordi, cancellando il passato e promettendo un futuro diverso, in una truffa che non avrà mai fine.
Chi lo vedrà quel futuro? Altre persone, altre vite, non tu.
«Di cosa hai paura?» mi chiese lei, prima di uscire dal nostro minuscolo linkflat. La porta scorrevole già aperta, in un rumore metallico appena accennato, la voce dell’IA impallata nel ripetere quel suo arrivederci stridulo e difettoso. Avrei dovuto farla riparare mesi fa, ma non ci rimanevano abbastanza crediti.
«Ho paura che si rovini, è nuovo» mi giustificai. Marion mi aveva regalato uno splendido orologio vintage per il mio compleanno. Sul quadrante, si potevano vedere non solo le lancette, ma anche gli ingranaggi in quarzo e rame, scintillanti e perfettamente sincronizzati. Doveva esserle costato un occhio della testa. «Si potrebbe rompere» non potevo pensare a uno scenario del genere.
«Una cosa che usi si rovina» mi rispose lei, con fare paternalistico «ma una cosa che non usi si perde». La sua saggezza spesso mi lasciava spiazzato come un octomorpho che attraversa la strada e si blocca all’improvviso davanti ai fari di un’auto, lacerando il buio della notte. Restavo inerte, consapevole che non ci fosse null’altro da fare. Lei vinceva sempre e io perdevo, felice. Al sicuro di un amore sincero.
«La prossima volta lo metto, promesso. Ora devo andare» le sorrisi, consapevole che al mio rientro l’avrei trovata lì, intenta a dare il cibo al nostro vecchio Kirk, un cagnaccio ossuto e con lunghi baffi grigi. Spesso mi guardava chiedendomi chi fossi, nella sua buffa demenza, ma aspettandosi comunque una carezza e una lieve grattata d’orecchie. Era con me da oltre quindici anni, nel bene e nel male, avevamo attraversato insieme la vita. A volte affamati, a volte infreddoliti, ma sempre consapevoli che saremmo sopravvissuti. Mi chiesi a quali ricordi si aggrappa un cane, prima di addormentarsi.
La porta del linkflat si chiuse con uno sbuffo. Davanti a me solo il pianerottolo in plastica e acciaio e una rampa di scale strette che si snodavano per il fitto complesso di appartamenti di Metaphor. La città era cresciuta a una velocità vertiginosa dopo il boom economico conseguente al Primo Contatto. A quanto pare, gli abitanti possedevano delle qualità difficili da trovare in altre contee e il terreno era ricco di minerali utili ai viaggi spaziali, cosa che non guastava mai durante negoziazioni commerciali con esseri provenienti da altri mondi.
Scesi gli scalini a due a due. La città si stava appena risvegliando e solo qualche sporadico taxi sfrecciava sulle vie principali. Si sarebbe potuto pensare che le auto sarebbero evolute velocemente come il resto della tecnologia, una volta condivise le scoperte scientifiche con i Primaxi. Invece, evidentemente, un motore a scoppio rimane un motore a scoppio. Quello elettrico non era né più conveniente né meno inquinante, ma in fondo non fregava più niente a nessuno dell’ambiente. I Primaxi avevano riscritto tutte le nostre prospettive.
Una lieve pioggia calava dal cielo plumbeo. Le luci al neon dei locali notturni sfarfallavano intermittenti nei loro colori sgargianti.
Oggi avrei dovuto consegnare quattordici pacchi e ottantasette lettere. La tecnologia aveva preso il sopravvento nella maggior parte dei settori, ma per qualche motivo la posta non aveva smesso di fluire tra le vie della città. La burocrazia piace agli esseri umani, dà loro quell’illusione di essere in controllo. Con le sue date stampate, i suoi francobolli, le sue buste con gli indirizzi dichiarati; c’era ancora qualcosa che doveva ostinarsi ad essere fisico, non solo virtuale.
Salii sul mio Kawasaki scalcagnato, un modello ancora in validità per pochi anni. Probabilmente l’amministrazione sarebbe passata a Kove, molto più affidabile e innovativo in quanto prodotto cinese, ma per il momento dovevo farmelo andare bene. Nel baule avevo già stivato tutto il necessario. Era mia abitudine farmi consegnare la posta a fine turno, la sera precedente, per partire di buona lena la mattina successiva. Forse non proprio ortodosso, ma era così che a me piaceva lavorare. Preciso, puntuale, professionale. Le comunicazioni potevano essere di vitale importanza per le persone. Tante cose dipendevano da me, dalla mia attenzione, dalla regolarità imprescindibile che attribuivo a questo lavoro.
Chissà, forse per questo mi piacevano tanto gli orologi.
Misi in moto lo scooter sotto la pioggia sottile e mi diressi tra le vie trafficate del centro. La prima consegna era un piego libri destinato alla signora Rosanna Trent. Chi leggeva ancora libri cartacei? Quel pensiero mi fece sorridere. In fondo, una storia da tenere tra le mani dava un senso di realtà che i mondi virtuali non avrebbero mai potuto sostituire.
Parcheggiai sul limitare del marciapiede. Un ologramma di divieto di sosta lampeggiava fluttuando di fronte al portone. Mi avvicinai al campanello e lo sfiorai. La voce dell’IA si attivò all’impronta del pollice e mi chiese di attendere. Stavo già cominciando a pensare all’ora di pranzo. Avrei potuto mangiare in quel ristorante fusion cino-cileno che avevo visto un mese prima, passando nel quartiere oltre la miniera. Il mio sguardo perso nel vuoto mentre la signora Trent mi gracchiava di aspettare solo un secondo. La sentii interagire con l’IA per aprire la porta e scendere qualche rampa di scale. Fischiettai, non sapevo nemmeno io perché. Forse la giornata era partita troppo bene per odiare il lunedì.
Non lo vidi nemmeno arrivare. Sentii qualche suono, forse il mio grido di dolore, forse le sue frasi allucinate e sconclusionate, disturbate dal Ludox che si era iniettato poco prima. Mi accasciai a terra. Una sensazione di impotenza che non avevo mai provato prima. Il mio pensiero scavalcò ogni altra paura e se ne volò da Marion, sola a casa, in attesa del nostro primo figlio. Chissà come lo chiamerà.
Io sarò già svanito. Rimarrò solo nelle vecchie foto, in qualche album che avevamo deciso di stampare prima che un accordo coi Primaxi impedisse l’uso di carta e stampanti ai privati. Sarei rimasto come un quadro in una cornice, come una storia da raccontare.
Mentre la vita evaporava dalla mia pelle capii che quella sarebbe stata la mia rinascita. Un uomo nuovo, nato dai ricordi e dai racconti di Marion. Un’altra possibilità, pura e indistruttibile. Possibile solo grazie all’amore che resta quando non c’è stato il tempo dell’odio, del dolore, del biasimo e del cambiamento. Il mio amore per mia moglie e mio figlio sarebbe diventato eterno, impossibile da confutare. Mi rilassai, solo, nell’inizio del giorno. Mi sentii interminabile, ora che nulla sarebbe più cambiato.
Nel mio ultimo respiro mi dissi che sarei diventato immortale nella memoria. Espirai, avvertendo per un attimo un vagito distante.
La vita finisce e lascia a malapena la puzza di marcio del tuo corpo in decomposizione. Puoi solo sperare che l’odore di putrido perduri, lasciando di te un ricordo sgradevole, ma lungo abbastanza da penetrare nella testa di quelli che passeranno. Poi, tutto finisce lo stesso. Inesorabilmente, anche quel poco che resta svanisce e il vento torna a soffiare, portando con sé altri odori, altre voci, altri ricordi, cancellando il passato e promettendo un futuro diverso, in una truffa che non avrà mai fine.
Chi lo vedrà quel futuro? Altre persone, altre vite, non tu.
«Di cosa hai paura?» mi chiese lei, prima di uscire dal nostro minuscolo linkflat. La porta scorrevole già aperta, in un rumore metallico appena accennato, la voce dell’IA impallata nel ripetere quel suo arrivederci stridulo e difettoso. Avrei dovuto farla riparare mesi fa, ma non ci rimanevano abbastanza crediti.
«Ho paura che si rovini, è nuovo» mi giustificai. Marion mi aveva regalato uno splendido orologio vintage per il mio compleanno. Sul quadrante, si potevano vedere non solo le lancette, ma anche gli ingranaggi in quarzo e rame, scintillanti e perfettamente sincronizzati. Doveva esserle costato un occhio della testa. «Si potrebbe rompere» non potevo pensare a uno scenario del genere.
«Una cosa che usi si rovina» mi rispose lei, con fare paternalistico «ma una cosa che non usi si perde». La sua saggezza spesso mi lasciava spiazzato come un octomorpho che attraversa la strada e si blocca all’improvviso davanti ai fari di un’auto, lacerando il buio della notte. Restavo inerte, consapevole che non ci fosse null’altro da fare. Lei vinceva sempre e io perdevo, felice. Al sicuro di un amore sincero.
«La prossima volta lo metto, promesso. Ora devo andare» le sorrisi, consapevole che al mio rientro l’avrei trovata lì, intenta a dare il cibo al nostro vecchio Kirk, un cagnaccio ossuto e con lunghi baffi grigi. Spesso mi guardava chiedendomi chi fossi, nella sua buffa demenza, ma aspettandosi comunque una carezza e una lieve grattata d’orecchie. Era con me da oltre quindici anni, nel bene e nel male, avevamo attraversato insieme la vita. A volte affamati, a volte infreddoliti, ma sempre consapevoli che saremmo sopravvissuti. Mi chiesi a quali ricordi si aggrappa un cane, prima di addormentarsi.
La porta del linkflat si chiuse con uno sbuffo. Davanti a me solo il pianerottolo in plastica e acciaio e una rampa di scale strette che si snodavano per il fitto complesso di appartamenti di Metaphor. La città era cresciuta a una velocità vertiginosa dopo il boom economico conseguente al Primo Contatto. A quanto pare, gli abitanti possedevano delle qualità difficili da trovare in altre contee e il terreno era ricco di minerali utili ai viaggi spaziali, cosa che non guastava mai durante negoziazioni commerciali con esseri provenienti da altri mondi.
Scesi gli scalini a due a due. La città si stava appena risvegliando e solo qualche sporadico taxi sfrecciava sulle vie principali. Si sarebbe potuto pensare che le auto sarebbero evolute velocemente come il resto della tecnologia, una volta condivise le scoperte scientifiche con i Primaxi. Invece, evidentemente, un motore a scoppio rimane un motore a scoppio. Quello elettrico non era né più conveniente né meno inquinante, ma in fondo non fregava più niente a nessuno dell’ambiente. I Primaxi avevano riscritto tutte le nostre prospettive.
Una lieve pioggia calava dal cielo plumbeo. Le luci al neon dei locali notturni sfarfallavano intermittenti nei loro colori sgargianti.
Oggi avrei dovuto consegnare quattordici pacchi e ottantasette lettere. La tecnologia aveva preso il sopravvento nella maggior parte dei settori, ma per qualche motivo la posta non aveva smesso di fluire tra le vie della città. La burocrazia piace agli esseri umani, dà loro quell’illusione di essere in controllo. Con le sue date stampate, i suoi francobolli, le sue buste con gli indirizzi dichiarati; c’era ancora qualcosa che doveva ostinarsi ad essere fisico, non solo virtuale.
Salii sul mio Kawasaki scalcagnato, un modello ancora in validità per pochi anni. Probabilmente l’amministrazione sarebbe passata a Kove, molto più affidabile e innovativo in quanto prodotto cinese, ma per il momento dovevo farmelo andare bene. Nel baule avevo già stivato tutto il necessario. Era mia abitudine farmi consegnare la posta a fine turno, la sera precedente, per partire di buona lena la mattina successiva. Forse non proprio ortodosso, ma era così che a me piaceva lavorare. Preciso, puntuale, professionale. Le comunicazioni potevano essere di vitale importanza per le persone. Tante cose dipendevano da me, dalla mia attenzione, dalla regolarità imprescindibile che attribuivo a questo lavoro.
Chissà, forse per questo mi piacevano tanto gli orologi.
Misi in moto lo scooter sotto la pioggia sottile e mi diressi tra le vie trafficate del centro. La prima consegna era un piego libri destinato alla signora Rosanna Trent. Chi leggeva ancora libri cartacei? Quel pensiero mi fece sorridere. In fondo, una storia da tenere tra le mani dava un senso di realtà che i mondi virtuali non avrebbero mai potuto sostituire.
Parcheggiai sul limitare del marciapiede. Un ologramma di divieto di sosta lampeggiava fluttuando di fronte al portone. Mi avvicinai al campanello e lo sfiorai. La voce dell’IA si attivò all’impronta del pollice e mi chiese di attendere. Stavo già cominciando a pensare all’ora di pranzo. Avrei potuto mangiare in quel ristorante fusion cino-cileno che avevo visto un mese prima, passando nel quartiere oltre la miniera. Il mio sguardo perso nel vuoto mentre la signora Trent mi gracchiava di aspettare solo un secondo. La sentii interagire con l’IA per aprire la porta e scendere qualche rampa di scale. Fischiettai, non sapevo nemmeno io perché. Forse la giornata era partita troppo bene per odiare il lunedì.
Non lo vidi nemmeno arrivare. Sentii qualche suono, forse il mio grido di dolore, forse le sue frasi allucinate e sconclusionate, disturbate dal Ludox che si era iniettato poco prima. Mi accasciai a terra. Una sensazione di impotenza che non avevo mai provato prima. Il mio pensiero scavalcò ogni altra paura e se ne volò da Marion, sola a casa, in attesa del nostro primo figlio. Chissà come lo chiamerà.
Io sarò già svanito. Rimarrò solo nelle vecchie foto, in qualche album che avevamo deciso di stampare prima che un accordo coi Primaxi impedisse l’uso di carta e stampanti ai privati. Sarei rimasto come un quadro in una cornice, come una storia da raccontare.
Mentre la vita evaporava dalla mia pelle capii che quella sarebbe stata la mia rinascita. Un uomo nuovo, nato dai ricordi e dai racconti di Marion. Un’altra possibilità, pura e indistruttibile. Possibile solo grazie all’amore che resta quando non c’è stato il tempo dell’odio, del dolore, del biasimo e del cambiamento. Il mio amore per mia moglie e mio figlio sarebbe diventato eterno, impossibile da confutare. Mi rilassai, solo, nell’inizio del giorno. Mi sentii interminabile, ora che nulla sarebbe più cambiato.
Nel mio ultimo respiro mi dissi che sarei diventato immortale nella memoria. Espirai, avvertendo per un attimo un vagito distante.