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Re: Mara

@Poeta Zaza   grazie del tempo che mi hai dedicato, Mariangela. Prendo nota e approvo quasi tutte le tue note tecniche :-)
Il titolo iniziale era "La valle dentro" poi una cosa ha tirato l'altra e questo racconto è diventato un racconto per una mia amica carissima, Mara. Tutti gli attributi del personaggio "Mara" sono anche della persona "Mara" e non riuscivo a non dargli anche il suo nome, sebbene sapessi che non era del tutto azzeccato.
Nel glossario dovevo riportare la parola, hai ragione.
Un abbraccio a te

Re: Mara

@mercy   ciao!

Che bello che sei passata!

I paragrafi li ho lasciati dentro la tastiera... mi succede ogni volta.
Il registro diverso me lo ha fatto notare un mio amico e anche del verbo "ganciare" che non è italiano. Concordo con entrambi :-)

Più che i caratteri mi ha limitato il tempo, dovevo finire entro giovedì e più spazio voleva dire più ricerca e non ci sarei mai riuscita. L'ho postato perché voglio sistemarlo, ampliarlo con calma e vedere se può essere buono per un concorso (ammesso che il racconto sia buono). Grazie, mia cara! :sss:

Mara

commento


Con il forcone raccolgo un'ultima manciata d'erba e la getto sulla coerta1; mi chino e ne lego i lembi per ottenere un grosso fagotto. Il sudore m'imperla la fronte e le tempie, ricopre il petto, la schiena e le braccia, ma il vento lo asciuga quasi subito. Nonostante l'aria fresca e la pelledoca lavoro comunque a torso nudo, perché qua il sole lo vediamo poco. Siamo a luglio e l'estate è oltre la metà per noi.
«Gualtiero, sono pronto,» chiama mio fratello dalla sommità del campo.
Lo raggiungo. L'erba sbuffa sotto i pesanti scarponi di cuoio . A ogni passo i polpacci sisi contraggono nello sforzo della salita. Sposto il peso del corpo sull'avanpiede per avere maggior spinta. Guglielmo allunga la mano e mi aiuta a montare sul piccolo terrazzino che abbiamo ricavato nel nostro campo. Un quadrato pianeggiante su un pendio talmente erto che una discesa un po' irruenta può costare un ruzzolone fino al paese.
«Dopo questa ci riposiamo fino a domani,» dice mio fratello mentre stringe bene le falde della coerta.
Annuisco accucciandomi a terra. Abbiamo raccolto quasi tre quarti dell'erba, possiamo anche aspettare un giorno in più per finire.
Con sforzo Guglielmo solleva la coerta di quel metro scarso che serve per issarmela sulla schiena. Le vertebre gemono sotto il peso del fieno. Irrigidisco le cosce e con un colpo di reni torno in piedi; scendo adagio fino al tabià2 e getto il carico sul pavimento. Torno fuori e alzo il viso verso il sole. La media e bassa valle sono in ombra, ma lì, sulla costa, avremo luce fin verso le cinque. Dalle palpebre semichiuse vedo una nuvola grigia che si adagia sulla sommità di una delle cime. «Guglielmo, il Sas si sta coprendo. Dobbiamo continuare,» dico. Un brivido mi corre lungo la schiena.
A mio fratello sfugge un gemito, ma non ribatte. Se l'erba si bagna adesso la fatica fatta per girarla e rigirarla affinché seccasse per bene sarà stata inutile, e noi non avremo di che sfamare le vacche durante l'inverno.
Nelle successive due ore lavoriamo come matti; gli occhi a terra e le orecchie al cielo che ora è tutto coperto. Gettiamo l'erba sulle coerte senza cura. Qualche ciuffo fuoriesce quando le leghiamo, ma non ci importa. Guglielmo non aspetta più che lo aiuti, si carica i fagotti sulle spalle e va avanti e indietro dal tabià come un mulo stanco. Nel vedere i suoi passi incerti e pesanti vorrei potergli dire di fermarsi, che ci penserò io, ma non posso perché da solo non finirei in tempo. La terra dove viviamo non ammette né debolezza e né sentimentalismi.
La valle intera è punteggiata di uomini e donne che si affannano: la stagione dei temporali brevi è finita e tornano le piogge, quelle lunghe e fitte.
Le nuvole basse e plumbee sputano gocce grosse come monete da 5 lire, un paio di minuti dopo piove così forte da costringerci a rientrare. Abbiamo raccolto quasi tutto.
«Ce l'abbiamo fatta, Elmo!» esclamo, ma il mio entusiasmo si spegne subito. Mio fratello, bianco come la neve, è appoggiato contro il montante del portone, il corpo scosso da colpi di tosse che gli tagliano il fiato.
Da due giorni la pioggia scroscia incessante; fa così buio che dobbiamo sempre tenere accese le lampade a olio e la stufa è tornata a ardere. Ho messo Guglielmo a letto con il prete, quello che c'è da fare lo sbrigo da solo.
«Appena smette voglio andare dai Dell'Eva,» dico porgendogli una scodella piena di minestra d'orzo.
«Dai Tateri?» Annuisco e lui sorride mentre soffia su una cucchiaiata. «Finalmente ti sei deciso, sono contento.»
Aspetto altri due giorni prima di partire per quel viaggetto di trenta chilometri. Davanti allo specchio della toeletta che era di mamma mi osservo critico. Prendo un po' d'acqua dal catino e liscio i capelli all'indietro, poi tiro ben bene i polsini della camicia di cotone bianca a quadrettini verdi e sbatto i calzoni di fustagno. Niente scarponi oggi, ma le scarpe di cuoio duro che uso nei giorni di festa. Sono quasi nuove. Appena le infilo sento la pelle del tallone che protesta dal dolore. Indietreggio, così da specchiarmi per intero. Bello non sono: ho i lineamenti troppo affilati e il corpo magro e segaligno, giusto gli occhi meritano attenzione. Mamma diceva che sono del colore dei laghi alpini: un misto di blu e grigio. Beh, tanto la faccia mica posso cambiarmela, tanto vale muoversi. Gancio i calzoni con due mollette e butto fuori l'aria dalla bocca per scacciare il nervosismo; esco e inforco la bicicletta.
Con il vento sulla faccia sfreccio fino a San Bernardo e arrivo giù a Pracorno con solo qualche colpo di pedale. Il vento fresco mi ringalluzzisce e con uno slancio entro nella provinciale. Spingo sui polpacci per affrontare la salita alzandomi sul sellino. Amo la fatica perché disperde i pensieri, specie quelli su cui non voglio soffermarmi.
Con l'approssimarsi della meta rallento. Quando arrivo alla piazza di Ossana scendo dalla bicicletta e vado alla fontana. Prendo grosse manate d'acqua gelida e me le butto sul viso e sui capelli, poi getto indietro la testa. Scrollo forte come fa il Nero, il nostro cane che ha accompagnato mio fratello Guerrino su all’alpeggio. Un po' avevo davvero bisogno di una rinfrescata, ma ho anche bisogno di prendere tempo. Ora che sono arrivato non ho poi così fretta di fare quel che ho in mente. Con la bicicletta a mano mi avvio verso il maso dei Dell'Eva; il signor Renzo è seduto davanti alla porta ad affilare un coltello. Ho la faccia fresca, ma il fuoco dentro la pancia, neanche avessi una fornace nelle viscere.
«State tutti bene?» domanda il signor Renzo dopo avermi stretto la mano e fatto accomodare su uno sgabello basso. «Non vi si vede spesso; certo è un bel pezzo di strada fino qui.»
«Guerrino è su alla malga con le bestie, andrò a prendere il latte da lui domani. Guglielmo, invece, non sta bene. È sempre pallido, stanco e tossisce molto.»
«Che dice il dottore?» chiede il signor Renzo posando la lama sul ginocchio.
«Per ora nulla. Lo chiamerò dal bar di Malè quando tornerò a casa e gli chiederò di venire.» Il telefono lassù non ce l'abbiamo. Giusto l'albergo delle Terme ne ha uno, ma è solo per gli ospiti, o le questioni di vita o di morte.
«Dovreste trasferirvi qua, Gualtiero. Hanno aperto la segheria e cercano personale. Oppure potreste fare i fabbri o i tagliaboschi. Nessuno di voi tre resterebbe senza lavoro.» Ricomincia a molare il coltello, il ferro stride sgradevole contro la pietra.
«Non saremo i primi Bezzi a lasciare il maso. Viviamo lì da generazioni. È la nostra casa,» dico un po' troppo secco. «Oggi sono venuto a chiedervi la mano di Ada.» La voce è appena incrinata e le dita si stringono attorno al bicchiere di sambuco ghiacciato che mi è stato offerto.
Un lampo di stupore attraversa gli occhi del signor Renzo. «Oh, credevo... lascia perdere.» Mi dà una pacca sul ginocchio. «Se Ada acconsente vi darò la mia benedizione. Sei un brav'uomo. Vado a chiamarla.»
Rimasto solo finisco il sambuco. È buono: dolce e aspro allo stesso tempo. Però, ora come ora, avrei preferito un po' di sgnàpa, tanto per darmi coraggio.
«Ciao, Gualtiero. Papà dice che vuoi parlarmi?» Ada sorride mentre si pulisce le mani sporche di terra nel grembiule. Non l'ho neanche sentita arrivare. «Devi scusarmi,» aggiunge. «Non aspettavamo nessuno ed ero nell'orto a raccogliere l'insalata.»
«Non preoccuparti. Ti spiace se camminiamo?» Poso il bicchiere a terra e mi alzo.
«Niente affatto,» risponde con un sorriso.
Imbocchiamo la stradina che porta al Belvedere; in teoria dovrei iniziare il mio discorsetto, ma ho la gola secca e la lingua impastata. Riesco ad aprire bocca solo quando arriviamo alla piccola rupe che domina il paese. «Ho bisogno che tu mi sposi, Ada,» butto fuori d'un fiato, le mani poggiate alla staccionata che impedisce alla gente di cadere di sotto.
«Hai sbagliato sorella, per caso?» domanda tagliente; il sorriso di prima scomparso.
«No, sei la sorella giusta,» sospiro.
«Ma se sei innamorato di Mara da anni...»
«Non credo che sappia cosa provo per lei, e comunque non ha importanza.» La mia voce sfuma fin quasi a sparire.
«Potrà anche non saperlo, ma Mara nutre dei sentimenti per te.» C'è un misto di rabbia e dolcezza nel suo tono.
«Te l'ho detto, non ha importanza.» Alzo lo sguardo. Io e Ada siamo alti uguali, ma lei potrebbe spedirmi a terra con un pugno. Se io sono esile, lei è una donnona. Tutto il contrario di sua sorella che è piccola e minuta. «Sarò un buon marito, te lo prometto. Ti sono affezionato e non pretenderò mai niente che tu non voglia, neanche in quel senso,» borbotto agitando le mani a caso. Ho le guance in fiamme.
Ada sbuffa forte. «Gualtiero, io non capisco. Ti ho appena detto che Mara...»
«Ada, su al maso le cose non vanno bene.» Ho la voce bassa e tesa. «Credo che Elmo sia malato e deve smetterla di affaticarsi. Guerrino è via con le vacche da maggio a inizio ottobre, e io non posso fare tutto da solo. L'altro giorno Elmo si è quasi ammazzato per aiutarmi a raccogliere il fieno prima che piovesse. Avresti dovuto vedere com'era conciato dopo.»
«Gualtiero, vi serve un lavorante, non una moglie. Prendete qualcuno e sposa mia sorella. È lei quella giusta, non io.» Mi stringe la mano con affetto.
«Lassù la vita è diversa. Non c'è elettricità, né acqua corrente e se le cose vanno male non si mangia. Mara morirebbe di fatica: lei è come Guglielmo, è fragile. Tu e io siamo resistenti.»
«Cambiate valle e venite qui a Ossana dove abbiamo tutte queste cose. Non ci credevo, ma la vita è molto più facile, ora.»
«Le case non si gettano via come stracci vecchi.» La sua faciloneria è irritante. «Un mucchio di matrimoni sono nati per bisogno. Anche i miei si sposarono per lo stesso motivo, ma sono stati felici.»
«Gualtiero, siamo nel 1953! Mi rifiuto di diventare tua moglie per mandare avanti il vostro maso. E ancor di più mi rifiuto di sposare l'uomo che ama mia sorella, che è poi lo stesso stupido che la ricambia, ma non se la piglia perché non capisce che lei vale molto più di un mucchio di pietre e un prato,» dice tutto d'un fiato, le guance paonazze di rabbia. Mi scocca uno sguardo che farebbe accapponare la pelle a un brigante e mi lascia lì come un allocco, in mezzo agli uccellini che ciangottano.
I mesi seguenti sono lenti. Torno dai Dell'Eva solo una volta, a ottobre, prima che arrivi la neve. Voglio assicurarmi che fra me e Ada sia tutto a posto, ci conosciamo da una vita e non vorrei mai che ci guastassimo. E anche per vedere Mara. Dopo che Ada mi ha detto che anche lei mi vuole è stato difficile non farmi avanti, ma le cose non sono cambiate. Io non lascerò il nostro maso e non le chiederò mai di venirci a vivere.
Qua il suo sorriso si spegnerebbe, la sua pelle bianca e rosa diverrebbe solo bianca e dimagrirebbe fino a sparire.
Passiamo l'inverno chiusi in casa: io, Guglielmo e Guerrino che esce ogni giorno a prendere neve e ghiaccio da sciogliere per avere l'acqua. Nonostante i guanti gli vengono i geloni due volte.
Ad aprile c'è ancora la neve e Guerrino non può tornare all'alpeggio. A maggio non è ancora partito e abbiamo finito il fieno. Le mucche più deboli muoiono di fame e anche le scorte per noi sono terminate. Il terreno è stato ghiacciato tanto a lungo che non è spuntato niente nel nostro minuscolo orticello. Le vacche fanno così poco latte che non vale la pena portarlo al caseificio. Ce lo beviamo noi, ma non riempie la pancia.
Macelliamo le bestie morte; sono magre, la carne è tignosa e priva di grasso. Siamo dimagriti tutti e tre, Guglielmo più di tutti. Sono felice che Mara non sia qui, un inverno simile l'avrebbe uccisa. La valle dove vivono, accanto alla nostra, è ampia e soleggiata. Ho sentito dire che la neve, là, si è sciolta un mese fa e i pastori sono partiti da quindici giorni. Hanno sofferto, ma non quanto noi. Guerrino riparte il 20 di maggio. Io e Guglielmo restiamo soli. Dei lavori pesanti mi occupo io: prendo l'acqua alla roggia3, falcio il prato, guido il furgoncino, che condividiamo in sei famiglie, fino alla malga da Guerrino per prendere il latte e portarlo giù al caseificio. Alla sera sono così stanco che quasi mi casca la faccia nel piatto. Non ho tempo di pensare a niente se non che Guglielmo, ora che si limita a tener dietro alla casa, sembra stare meglio.
Torna l'inverno ed Elmo riprende a tossire. Una tosse secca e cattiva che lo spossa e lo costringe a letto. Guerrino corre giù all'albergo e chiede di chiamare il dottore; non hanno il cuore di dirgli di no visto che si è fatto sei chilometri a piedi con due metri di neve. E poi d'inverno sono chiusi, e non hanno ospiti che possano vedere quel pastore sporco e stanco che è sceso dalla montagna. Io resto a casa con Guglielmo, lo tengo al caldo, lo imbocco e guardo fuori dalla finestra ogni dieci minuti. Guerrino torna a casa il giorno dopo insieme al medico che visita nostro fratello con aria grave. Quando finisce ci fa cenno di uscire.
«Mi spiace dovervelo dire, ma il signor Bezzi ha la tubercolosi.»
Io e Guerrino ci guardiamo un istante. «Beh, ma si cura con l'aria di montagna, no?» chiede lui con la speranza nella voce.
Il dottore scuote il capo. «L'aria pulita non basta. Occorre cibo sano e nutriente, pasti regolari, una casa calda, senza spifferi o polvere.»
«Cosa possiamo fare?» domando ignorando il suo giudizio.
«Un ricovero in clinica sarebbe la cosa migliore.»
«Non possiamo permettercelo,» mormora Guerrino.
«Allora mandatelo da qualche parente. L'altitudine qui è ottima, ma il resto...»
«Altrimenti?» domando, perché neanche quella strada è praticabile.
«Altrimenti morirà,» risponde senza scomporsi.
Scrivo al signor Renzo e lui ripete che dobbiamo trasferirci giù a Ossana, che sarà anche più bassa, ma è più vivibile. Si offre di accogliere Guglielmo. Mio fratello non ne vuole sapere. Discutiamo di partire insieme, ma nessuno di noi tre vuole lasciare il nostro mucchio di pietre, come lo ha definito Ada. Guerrino riparte a primavera, io e Guglielmo restiamo soli di nuovo. Lui trascorre le giornate a letto o steso su una poltrona reclinabile che ci hanno mandato dall'albergo. È malandata, ma per noi va bene. Io lavoro più di prima. A volte evito di cucinare quando qualche famiglia ci porta qualcosa, ma nessuno ci aiuta in modo regolare e non per cattiveria, è che sono tutti presi a tirare avanti la baracca.
Guglielmo spira in un pomeriggio di luglio, circa due anni dopo quel temporale che quasi ci mangiava la fienagione. Io non sono con lui quando muore, ma nel campo a raccogliere l'erba. Lo trovo inerte sulla sua poltroncina all'ingresso del tabià. Lo ricompongo e salgo a piedi fino da Guerrino, ho bisogno di camminare per tenere a bada il temporale che ho nella pancia.
Passo il resto dell'estate da solo e quando Guerrino torna sono solo uguale. Lui parla poco, sta circa sei mesi l'anno con le vacche e il Nero, il silenzio è la sua dimensione. Per me e Guglielmo era diverso, e me ne accorgo solo ora che non c'è più. Parlavamo sempre, di tutto e di niente. O stavamo zitti in un silenzio piacevole; con Guerrino non so che dire e lui neanche. Ci vogliamo bene, ma la lontananza ci ha diviso.
Mi pesa tutto. La schiena duole quando trasporto i secchi pieni d'acqua dalla roggia, le ginocchia cigolano mentre mi inerpico per i prati, le braccia tremano mentre falcio. Il maso è piccolo e soffocante, non è più accogliente. Il tabià puzza di muffa e cantina, non di ricordi perduti. Spesso guardo verso sud dove la nostra valle si immette nell'altra e penso a Mara. L'ho vista l'ultima volta al funerale: è venuta da sola con l'unica bicicletta di casa, il viso chiazzato di rosso e il fiato corto per la fatica. Si è scusata per l’aspetto disordinato, ma io l'ho trovata perfetta. Non che glielo abbia detto, mi sono limitato a stringerle la mano e a ringraziarla.
«La settimana prossima parto,» dice Guerrino guardando le poche macchie di neve rimaste.
Io rimarrò solo per sei lunghi mesi. Solo in una casa vuota e con tonnellate di incombenze sulle spalle. Alla sera cenerò a una tavola altrettanto vuota, nessuna voce risuonerà fra le pareti, nessuna battuta o pacca sulla schiena allevierà le mie fatiche.
A letto provo a immaginare una vita diversa. Un masetto dentro al paese, solo per me e Mara. Io che esco al mattino e la lascio calda di sonno per andare a far legna. Sono bravo con sega e accetta e potrei davvero lavorare come tagliaboschi. Tornerei a casa prima di cena e troverei Mara ad aspettarmi. Mi accoglierebbe con il suo sorriso timido e luminoso insieme, e io l'abbraccerei e bacerei ogni sera. Ogni mattina. Il suo spirito gentile solleverebbe il mio, incline alla malinconia, e la mia forza la sosterrebbe. Ascolterei le sue chiacchiere lievi, la guarderei mentre disegna alla luce della lampada e, se avessi dei soldi in più, le comprerei tele e colori. La notte, sotto le coperte, me la stringerei addosso perché ha sempre freddo, soprattutto ai piedi e alle mani. Sì, sarebbe davvero una vita perfetta.
«Guerrino, ho deciso di andar via,» dico mentre sciolgo la cicoria nel caffè d'orzo.
Lui mi guarda con tanto d'occhi. «Cosa stai blaterando? Dopo che non ce ne siamo andati nemmeno quando Elmo era malato?»
«Lo so, ma...» Prendo un sorso prima di proseguire. «Non fraintendere, sei mio fratello e ti voglio bene, ma senza Guglielmo e con te che parti sento di non avere più niente qui.»
«Qui c'è casa nostra,» ribatte.
Lo guardo dritto negli occhi. «Lo credevo anche io, sai. Credevo che il maso e il campo fossero casa mia e invece tu e Guglielmo lo siete. Senza di voi non ha senso restare.»
«Gualtiero, andiamo insieme alla malga.» Offre brusco, perché mio fratello è un uomo chiuso.
«No, a te piace stare per conto tuo. E poi, forse sono cambiato io, non lo so.» Passo una mano fra i capelli. «Però questo non mi basta più. Vivere per mandare avanti il maso, con il terrore che la pioggia porti via il fieno, che la neve resti troppo a lungo, faticare per avere acqua sufficiente da lavarsi la faccia e fare tutto questo per me e basta.»
«Ascolta, chiedi allaMara di sposarti e portala qui. Tu sei cotto di lei e ho visto come ti guardava al funerale di Elmo. Io e lui ridevamo sempre di quanto tu sia imbranato...»
«Lei morirebbe di fatica. Ci ho già pensato e scartato l'ipotesi due anni fa.»
«In effetti è gracilina... sono poche le persone adatte a vivere così in alto, persino quelli che ci nascono.» Lo sguardo gli scivola sulla seggiola vuota che era di Guglielmo. «Dunque mi lasci per amore?» domanda con un sorriso a metà che mostra un incisivo mancante. Guerrino ha trentotto anni, dieci più di me, ma ne dimostra quasi cinquanta.
«Non ti lascio, scemo. Mi trasferisco.»
«Dove andrai a vivere, cosa farai?» Si abbandona contro lo schienale della seggiola.
«Non ne ho idea. Però so che voglio partire, prima di perdere il coraggio.»
Guerrino si alza e mi fa segno di imitarlo. Per un attimo temo che voglia picchiarmi perché ha uno sguardo che non so interpretare. Viene vicino e mi stringe con le sue braccia grosse come tronchi. Mi strozza, ma sono felice. «Se la ragazza fosse già stata accalappiata vieni a dirmelo che lo sistemo io l'altro, hai capito?»
Annuisco con un groppo in gola.
Ci metto un giorno a raccogliere le mie cose. Un lunedì mattina sistemo la valigia di cartone sul portapacchi della bicicletta e lascio Guerrino sulla soglia del maso. Gli ho detto che andrò da lui alla malga appena sarò sistemato. Lo saluto un'ultima volta con la mano, mollo i freni e imbocco la discesa che porta al fondovalle. Parto con il vento che mi accarezza la faccia, come quella mattina di due anni e mezzo fa. Quando arrivo alla provinciale pedalo come un pazzo fino a Ossana; ho una fretta nelle gambe che pare abbia i crucchi alle calcagna. Sento il cuore in gola e non è per la fatica. Spingo sui polpacci lungo l'ultimo tratto di salita e poi la vedo. Eccola lì, Mara, seduta davanti al loro tabià intenta a riparare un cesto di vimini.
«Gualtiero,» dice appena mi vede venendomi incontro. «Tutto bene? Sei sudato fradicio e...» Lascia la frase a metà, forse perplessa dalla mia improvvisa comparsa.
Scendo dalla bicicletta e le vado vicino. «Tutto bene è solo che...» Ora dovrei spiegare perché mi presento alla loro porta a metà della giornata e una valigia appresso. «Avevo bisogno di vederti,» dico senza riflettere.
Mara sorride appena e le sue guance si tingono di rosso. Le tendo la mano e lei posa la sua nella mia.
1Nel dialetto solandro: grosso telo di stoffa grezza dove veniva riposto il fieno per trasportarlo.
2Nel dialetto solandro: parte del maso adibita all'essiccamento e allo stoccaggio del foraggio. Veniva usata anche per tenervi attrezzi agricoli o scorte alimentari.
3Nel dialetto solandro: canalina che convoglia l'acqua, spesso si butta in bacili di pietra o legno per la raccolta delle acque e viene usata come fonte.

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