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Re: [H23] Le vite altrui

@Stregone :-) 

Non riesco a non immaginarti su una comoda poltrona vicino alla finestra, con una coperta sulle gambe e un gattone accoccolato sopra. La luce di un dolce tramonto che accende i narcisi sul davanzale e tra le mani una tazza di tè fumante. Ovviamente con un po’ di miele, mentre per casa si diffondono le note del concerto per violino e orchestra di Tchaikovsky… sbaglio????

Re: [H23] Le vite altrui

@Alberto Tosciri , grazie per il tuo passaggio e per il lusinghiero commento.
Hai una innata e spiccata sensibilità per leggere il dietro le quinte.
Il giorno in cui riuscirò a pubblicare un mio romanzo ti chiederò di farne la prefazione, se lo vorrai!

A rileggerti!

Re: [H23] Le vite altrui

@Bef  ciao e grazie di essere passata!
Sono contento di aver centrato la missione horror :-)

Riguardo al discorso su quando Walnus debba lasciare il corpo ospite (non ci credo che lo sto scrivendo!), quello è proprio il punto debole del suo piano: deve aspettare il più possibile per evitare che l’altra persona, tornata in sé, possa distruggere il quadro stesso! In questo caso il finale era che Elena provava a ordinarne la distruzione ai nipoti ma non poteva parlare perché intubata. Poi ho sforato i caratteri e ho tagliato.

Che dire: ogni piano ha una falla…

Ciao!

Re: [H23] Le vite altrui

Ciao @bestseller2020 !
Grazie di essere passato e contento che il pezzo ti sia piaciuto.
Sulla preparazione della cattura nel quadro penso che sia questione di gusti sul ritmo narrativo, quindi [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]capisco la tua osservazione.[/font]
[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Rispetto al corsivo (anche qui capisco che possa non piacere a tutti) dico solo che non é latino ma un’accozzaglia di parole (alcune inventate) messe a caso per simulare una lingua alchemica: quindi assolutamente nessun misticismo religioso! Non è proprio nelle mie corde :-)[/font]

Grazie ancora e ciao!

Re: [H23] Le vite altrui

@Albascura 
Grazie degli apprezzamenti!

Un segreto: nella mia idea originaria, la protagonista decideva davvero di ordinare ai nipoti di distruggere il quadro. Ci provava solo per scoprire di avere un tubo in gola e non riuscire a parlare... L’avevo scritto, poi ho contato i caratteri e deciso di tagliare. 
Forse meglio così.

A rileggerti

Re: [H23] Le vite altrui

@Poeta Zaza 
Ciao!
Poeta Zaza ha scritto: gio nov 02, 2023 10:25 pmrivelato un "vero scrittore
Beh… almeno fosse vero!
Ma devo dire che se un po’ sono migliorato, se qualcosa ho imparato, è grazie a CdM e ai vostri preziosi commenti/suggerimenti/critiche.
Questo è il vero valore di essere qui.

Grazie!!

[H23] Le vite altrui


Il mio commento
Traccia: Percorso del mistero
.
Le vite altrui

“Non lo voglio in casa, quello no.”
Il tono di Elena sembrava non lasciare spazio ad alternative, eppure Fabio non vi badò più di tanto. Stava facendo il suo lavoro, dopotutto.
Il loro appartamento era zeppo di oggetti di gusto macabro, inquietanti, se non disgustosi, ma era il suo commercio. Il mondo era pieno di gente che li collezionava nella speranza, nell’illusione, di avere accesso a forze occulte, tramite essi.
Adoratori del male, del diavolo, o di qualsiasi cosa simile avessero in mente.
Coglioni o creduloni che fossero, non gli importava, purché pagassero:
“Perché ce l’hai con questo dipinto?”, chiese mentre lo spostava per casa in cerca di un chiodo libero dove appenderlo, “Ci sono cose ben più schifose qui… la scultura intagliata nel cranio di una donna viva o quella specie di testa imbalsamata pre-umanità.”
Rise da solo per l’assurdità di quelle credenze, Elena non rispose e si limitò a seguirlo fino allo studio, dove il quadro fu appeso:
“Ecco! Orripilante ma prezioso. Dai, in fondo non è così male…”
Lei rabbrividì:
“Perché lo hai acquistato?”
“Cosa ti dà fastidio?”
“Non lo so, mi inquieta. Perché lo hai preso?”
Fabio sorrise come faceva quando era convinto d’aver scovato un vero affare. Si avvicinò al dipinto, con il dito puntato su una macchia chiara nell’angolo in basso a destra.
“Vedi qui? Questo marchio? Un albero con otto rami e sette teschi appesi. È originale, sono certo. Significa che quest’opera è di Walnus Rithaë.”
Vide che lei non reagiva al nome.
“Cazzo, Ele, è considerato l’unico alchimista ad aver davvero superato la morte. Un’idiozia, ma ogni sua opera vale tanti zeri quanti ne chiedi! Se vendo questo siamo a posto!”
“Fai in fretta, allora. Non lo voglio in casa un secondo più del minimo indispensabile.” e senza aggiungere altro, lasciò la stanza.

“Spegni la luce? Ho sonno.”
“Sì un’attimo, Ele, ancora un istante.”
Lei si girò a guardarlo, immerso in un enorme libro che puzzava di muffa. Un’altra decina del tutto simile giaceva a terra di fianco al letto:
“Cosa cerchi? È tutta sera che leggi quella roba.”
Fabio si voltò per sorriderle, ma negli occhi c’era dubbio.
“Non vorrei aver preso un abbaglio.”
“Il quadro con le tre bambine scheletrificate?”
“Già.”
“Falso?”
“Uhmm… sono convinto di no, ma non lo trovo descritto da nessuna parte. Cioè, ho trovato più accenni alla Trinità degli inferi…”
“Che nome!”
“Già, proprio allegro. Ma lasciami finire: La Trinità è considerata l’ultima opera di Walnus, il suo apice, e viene descritta, ecco, senti qui: Nigredo: d’oltre nulla, mors captatia.  Albedo: caturatio essentie vitae, solo puer. Critinitas: illumina viae, proteggendi duae puellas. Rubedo: aeterna requiescat, oculi aperi.”
“Ma che razza di lingua è?”
“Non è una vera lingua. L’alchimia mescolava parole diverse in base al loro potere, ma non è questo il punto.”
Elena lo vide infervorarsi e capì che per un po’ la luce sarebbe rimasta accesa. Sperò di non addormentarsi mentre Fabio spiegava.
Nigredo, Albedo, Critinitas e Rubedo sono le quattro fasi del Magnus Opus, la trasformazione della materia…”, provava a resistere, lei, ma poco alla volta le palpebre si facevano pesanti.
“Un puer, un bambino…”, le parole si scioglievano nel suo assopirsi, la coscienza svaniva nel mondo della notte. “Puellas, bambine, capisci la differenza?”
Ma Elena ormai era oltre la veglia e le ultime parole di Fabio si persero nel regno dell’incoscienza:
“Nel quadro dovrebbero esserci un bambino e due bambine, non tre bambine come nel nostro. O è un falso o ne esiste almeno una versione differente.”

Spalancò gli occhi nell’oscurità della notte.
Qualcuno la chiamava.
Tremante, fu sveglia. Una gelida lama al posto della spina dorsale, eppure, madida di sudore.
Chi la chiamava?
Trattenne il respiro, attese che il cuore si calmasse, che i battiti non rimbombassero più nella testa, protesa all’ascolto, ma non sentì alcun suono. Nessun richiamo.
Ho sognato?
Non ricordava nulla, solo una voce stridula che la chiamava. Come un’unghia che corre lungo la lavagna e si spezza incidendo il suo nome, Elena…
Volse lo sguardo alla sveglia sul comodino, sette minuti alle tre: ancora tutta la notte davanti.
Provò a rilassarsi con un respiro lento, profondo, ma il corpo non voleva smettere di tremare. Faceva un freddo assurdo nella stanza.
Era su un fianco, rivolta all’esterno del letto, e allungò una gamba all’indietro verso la metà di Fabio. Voleva il suo contatto, bramava il suo calore.
Protese la gamba, indietro, ancora, indietro, finché… eccolo!
Finalmente il piede toccò l’altro.
Era caldo. Nel gelo del proprio corpo le parve rovente. E ne fu grata. Felice in maniera assurda.
Ruotò e si trascinò fino a lui; si avvinghiò al suo calore.
Dio che bello. Che conforto. Si sentiva felice come una bambina.
Fabio continuava a dormire, dal fondo del proprio cuscino Elena ne osservò il profilo, appena visibile nel buio. Il mento sporgente, il naso un po’ aquilino…
Poi il suo sguardo andò al di là del suo uomo e trovò gli occhi della morte che la fissavano.
In piedi accanto al letto, la fissavano azzurri di ghiaccio.
Le si spezzò il respiro. Ebbe l’impulso di urlare, di gridare con quanta forza poteva, ma il corpo non rispose al suo volere.
Era inerme, completamente sottomessa a quello sguardo innaturale, al volto scheletrico che le sorrideva maligno. Non era possibile, non lo era, ma una delle bambine del quadro si trovava lì, in piedi accanto al loro letto, con quell’assurdo vestito e un dito puntato verso di lei.
Il sorriso del mostro si mosse per pronunciare qualcosa ed Elena non potè che attendere la sentenza, priva di ogni volontà.
Le labbra si curvarono e l’indice accusatore sembrò protendersi ancora. Una sola sillaba come il ronzio di una mosca, il guaire di un cane, il gorgoglio dell’ultimo respiro:
“Tu”.

Elena spalancò gli occhi nell’oscurità della notte.
La paura dell’incubo appena vissuto l’attanagliava, le rendeva difficile respirare. Si sentiva come se avesse un coltello ficcato dritto nel cuore e il terrore fin dentro le ossa, ma era stato un sogno. Solo un sogno!
Maledisse Fabio che l’aveva influenzata con le sue spiegazioni su quella merda di quadro: col cazzo che lo avrebbero tenuto… ma d’improvviso: Mamma, una voce acuta, infantile, interruppe quei pensieri. Una voce che non poteva esistere.
Mamma, risuonò nuovamente, e anche se Elena non aveva figli, sapeva che stava chiamando lei.
Strinse gli occhi per scacciare quel pensiero. Cercò rifugio nel buio, ma lì, dietro le palpebre, si muovevano le labbra del mostro, proprio come nell’incubo: Mamma, ripeteva la voce.
Riaprì gli occhi.
La sveglia sul comodino segnava sette minuti alle tre. Tutta la notte davanti.
Mammaaaa, il richiamo divenne lamento: da dove proveniva?
Elena era coricata sul fianco, proprio come nel sogno; alle sue spalle c’era la sicurezza di Fabio e fu tentata di cercarlo con la gamba, ma si trattenne. Non voleva rivivere quel terrore.
No, non aveva senso, lei stava ancora dormendo, non poteva essere altrimenti, tutto andava bene. Adesso si sarebbe svegliata.
Mamma?
Strinse i denti. Non è reale, niente è reale… Mamma!
Non lo è. Non lo è, si ripeteva con rabbia crescente. E lo disse più volte e poi ancora, finché l’ira non la colmò e la spinse oltre la paura. Quasi senza pensarci, si voltò di scatto.
Vide Fabio che dormiva tranquillo e oltre lui, in piedi accanto al letto… nulla.
Nessuna bambina morta là, nessun altro mostro. Nulla di nulla.
Fu presa da una risatina isterica. Si sentì stupida, sciocca. Coprì la bocca con la mano per non svegliare Fabio con il suo ridacchiare nervoso. Una stupida, sì. Si era lasciata trasportare…
Mamma.
Silenzio. Paura.
Mamma.
La voce veniva d’altrove, non dalla loro stanza.
“Fabio”, sussurrò, “Fabio, svegliati…”
Lui grugnì, e senza nemmeno aprire un occhio, si voltò dall’altra parte continuando a dormire.
Mammaaaaa! la voce sembrò disperata.
Elena non seppe dove trovò il coraggio per appoggiare il primo piede a terra; forse fu il tono del richiamo che toccò qualcosa di ancestrale in lei, forse il suo senso materno, ma si ritrovò in piedi.
Le piastrelle erano fredde.
Attraversò la stanza fino alla porta sul corridoio; non accese la luce.
Mamma.
Il pavimento sotto i suoi passi parve lungo, impossibilmente lungo, finché non raggiunse la porta del soggiorno. Tremava per la tensione, quasi batteva i denti.
Mamma.
Non era lì, ma adesso sapeva da dove veniva la voce. Forse lo aveva saputo sin da subito senza osare ammetterlo.
S’avviò verso lo studio, verso la Trinità degli inferi.
Fece i suoi passi nella stanza, la luce aranciata di un lampione irradiava quel minimo di visibilità per potersi muovere.
Il silenzio era assoluto, adesso. La voce non la chiamava più.
Si diresse verso il quadro; aggirò un mobile e si fermò giusto davanti al dipinto.
Alzò lo sguardo. E rimase senza parole.
Vi fu un lieve rumore dietro a lei, ma non si voltò, completamente assorbita dal dipinto, da cui la fissavano due bambine dal volto scheletrico. Non tre, due. Due sole bambine.
E mentre questo vedeva, questo capiva, il rumore alle sue spalle la raggiunse. Si sentì sfiorare i polpastrelli. Una piccola mano gelida intrufolarsi nella sua.
Abbassò lo sguardo.
Riconobbe il colore azzurro ghiaccio degli occhi, il bianco malato del volto, il vestito arancione dal largo cappello, la voce stridula: Mamma, ghignò crudele.

La sorprese la luce del giorno.
Elena notò subito che qualcosa non andava: proveniva dalla parte sbagliata della stanza. La finestra era a sinistra del letto, mentre ora veniva da destra.
Fece per ruotare il capo, ma non ci riuscì. Non potè. Era come se la sua testa fosse bloccata da una morsa. Non la mosse di un millimetro.
Il panico le attorcigliò la pancia. Provò a muovere le braccia, ma anch’esse parevano incollate. E così le gambe. Non poteva muovere nulla del suo corpo.
Cercò di controllare il terrore, di ricacciarlo giù e di capire dove si trovava.
Lo studio.
Non la sua camera, ma lo studio.
Riconosceva la stanza, gli oggetti, eppure li vedeva da una prospettiva che mai… come se fosse… come se fosse… appesa alla parete.
Urlò. Urlò disperata. Urlò tanto a lungo quanto poteva, ma non emise alcun suono.
La sua bocca non mutò forma dal ghigno che vi era dipinto, i suoi polmoni non si riempirono d’aria. Non accadde assolutamente nulla.
Nel quadro: era nel quadro; la figura in mezzo alle altre due bambine. Loro prigioniera.
Critinitas: illumina viae, proteggendi duae puellas. Le bambine proteggevano la via illuminata, la fuga dal quadro.
Volle piangere, ma non c’erano lacrime in quel dipinto. E nemmeno palpebre per chiudere gli occhi, o sonno, o speranza. Era bloccata nella sottile pellicola tra la vita e la morte. Catturata come una mosca.
Eternamente cosciente. Eternamente lì.
Nigredo: d’oltre nulla, mors captatia. Comprese che il nero fondale del quadro era il tessuto dietro cui si muoveva la morte. Poteva sentirla strisciare, ringhiare dietro di sé. Sentiva i suoi artigli sfiorarle la schiena.
Grattare senza poterla ghermire.
Fu allora che si aprì la porta dello studio ed entrò Fabio, ancora in boxer e con il telefono all’orecchio.
Speranza!
Elena provò speranza. Lui avrebbe capito, si sarebbe chiesto dov’era finita e avrebbe compreso, trovato la soluzione per liberarla. Non avrebbe dovuto soffrire per il resto dell’eternità.
Sperò davvero, s’illuse che un aiuto fosse possibile, finché non vide sé stessa entrare nella stanza, nuda, e stringersi a Fabio. Guardare verso il quadro con un malefico ghigno di soddisfazione e poi domandare:
“Chi era al telefono così presto?”
“Un collezionista, vuole La Trinità. Sarai contenta, me ne libero subito.”
“No. Non lo vendiamo”.
“Scusa, ma ieri…”
Lei sbuffò: “Ieri era ieri. Hai guardato bene il dipinto?”
“Cosa?”
“Guarda bene la figura centrale.”
Fabio si avvicinò al volto dipinto di Elena; tanto vicino che avrebbero potuto baciarsi.
Vide la sua espressione farsi stupore:
“Ma… ma… ti assomiglia incredibilmente! Ieri non era così.”
L’altra Elena lo strinse a sé:
“Sciocco, i quadri non cambiano da un giorno all’altro.”
Poi gli abbassò i boxer ed Elena non potè che vederli amarsi per la prima volta.
Albedo: caturatio essentie vitae, solo puer: la sua essenza di vita catturata per il bambino. Per Walnus Rithaë, l’alchimista che aveva sconfitto la morte e che adesso viveva al posto suo.
Colui che fece in modo che il quadro non venisse mai venduto.

Fu così che Elena rimase prigioniera.
Trascorsero i decenni. Rubedo: aeterna requiescat, oculi aperi. Sempre vigile, sempre con lo sguardo aperto, desiderando la morte a ogni istante, senza poterla avere mai.
Vide sé stessa e Fabio diventare una famiglia, avere dei figli. Li osservò giocare, li ammirò crescere e lasciare il nido. Li amò come fossero suoi, dal silenzio del suo carcere.
Mormorò preghiere per Fabio, quando un male lo portò oltre la vita, nel luogo a lei precluso.
Osservò l’altra Elena invecchiare, smagrirsi, diventare sempre più debole e curva. Ogni giorno fermarsi davanti al dipinto e sorridere, sbeffeggiarla.
Per quasi settant’anni lo fece, finché venne il giorno in cui non si presentò, e neppure nei due successivi. Nessuno accese la luce dello studio o alzò le tapparelle per una settimana, ed Elena scoprì che il buio e l’assenza di vita rendevano, se possibile, ancor più insopportabile la sua condizione. Pregò che qualcosa accadesse. Qualsiasi cosa.
Dieci giorni, poi la luce fu accesa e due dei nipoti entrarono nello studio. Si fermarono proprio davanti al quadro:
“È questo orrore?”
“Questo.”
“E la nonna lo vuole in camera stanotte? Ma è rimbambita?”
“Sta morendo, cosa ci costa? Dai aiutami”
Cambiare posto, cambiare visuale: non era mai successo. Elena provò qualcosa di simile alla felicità.
Almeno finché non si trovò appesa di fronte al suo letto, dove l’altra sé giaceva morente, con flebo e aghi infilati ovunque.
Allora provò soddisfazione.
Lui le aveva rubato la vita, tutto, ogni singola parte, ma adesso stava finalmente morendo e lei lo avrebbe visto spirare.
Sapeva che quel ricordo l’avrebbe consolata per l’eternità: questa notte avrebbe avuto la sua vendetta. Avrebbe gustato ogni istante dell’agonia, assaporato ogni rantolo; contato i minuti…
Fu quando la sveglia sul comodino ne segnò sette alle tre, che qualcosa si mosse.
Non avvenne nella stanza, ma nel quadro. Non era mai successo prima d’allora: le due bambine che la imprigionavano da decenni, si spostavano. Dapprima impercettibilmente, poi in maniera distinta, finché non si trovarono più frapposte tra Elena e la via illuminata.
Non ebbe nemmeno il tempo di capire quel che accadeva, che fu risucchiata in un vortice di nulla.

Spalancò gli occhi.
La prima cosa che notò fu la luce del sole, che arrivava dalla parte giusta, da sinistra, e seppe di trovarsi nel proprio letto. Nel suo morbido, comodo, fottuto letto.
Possibile che fosse stato tutto un folle incubo? Un sogno lungo e crudele, sì, ma pur sempre solo un sogno?
Sbatté più volte le palpebre, godendo di quel movimento così scontato ma che, nella mente, le era stato a lungo impedito.
Si diede della stupida per essersi lasciata suggestionare a tal punto dalle storie di Fabio.
Un cazzo di incubo con la i maiuscola, pensò, mentre allargava il braccio verso di lui. Ancora indecisa se amarlo o picchiarlo.
O meglio, provava a muovere il braccio, perché una serie di flebo e di aghi glielo impedì.
Spalancò gli occhi terrorizzata, ma allora…
Portò una mano davanti al volto. Pelle vecchia, maculata d’età. Ma allora…
Vero pianto le rigava le guance, mentre abbassava lo sguardo oltre i piedi del letto, alla parete di fronte.
Lì, dov’era lei la notte prima, stava appeso il quadro maledetto con le sue tre ignobili figure.
Tra le lacrime, vide che quella centrale le assomigliava terribilmente; era lei, ma aveva il ghigno beffardo di chi ti ha ingannato, di chi ti ha rimesso nel tuo corpo solo per lasciarti morire al suo posto. Di chi adesso deve trovare un’altra persona cui rubare la vita: un altro essere umano cui succhiare l’esistenza.
Perché Walnus Rithaë potesse vincere la morte non già con una vita eterna, ma con un’eternità di vite da vivere: di vite altrui.

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