Commento 1
Commento 2
I tre ragazzi saltellano così in fretta che quasi non ne distinguo i movimenti sullo schermo.
Su, giù, destra, sinistra, giravolta, capriola, salto, spaccata, ruota, verticale, ponte incrociato doppio…
Punz punz punz fa il mio sangue correndo dietro la musica del video.
La musica migliora la capacità dei bambini di concentrarsi.
Mi scappa un sospirone un po’ rumoroso.
Mamma si gira a guardarmi, qualche ruga sulla fronte sopra le sopracciglia sollevate.
Metto in fretta le labbra a forma di sorriso e muovo la testa avanti e indietro a ritmo del sangue e della musica.
Mamma torna a fare quello che fanno le mamme.
Appoggio il tablet, afferro la pallina blu, esco in cortile.
«Bengi! Vieni, bello!»
Io e Bengi siamo stati comprati lo stesso giorno. Mamma e papà avevano raggiunto il punteggio massimo ed era stato recapitato loro il buono “Figlio perfetto + animale. Offerta valida per una settimana, solo per cittadini perfetti.”
I bambini che crescono con un animale a fianco migliorano la loro capacità di comunicazione.
Bengi trotterella attraverso il giardino con la lingua a penzoloni, scodinzola, si ferma, abbaia. Lancio la palla.
Bengi si gira e parte in direzione palla.
La trova, la azzanna, trotterella verso di me, molla la palla ai miei piedi, si siede, abbaia.
Mi chino, afferro la palla. Mi alzo, lancio la palla.
Bengi abbaia.
«Di là!» esclamo indicando un angolo del quadrato verde che è il giardino. Bengi spinge il naso contro la mia gamba. Abbaia. «Ho detto di là!»
Io e Bengi continuiamo a giocare finché non ho male alle braccia.
L’attività fisica all’aria aperta è fondamentale per la crescita sana di un bambino sano.
Mi scappa un sospirone che ha un sapore sconosciuto. Controllo che mamma non sia alla finestra.
A cena c’è il minestrone, per secondo le polpette di lenticchie con i piselli e le patate.
Una dieta varia ed equilibrata garantisce la crescita sana del bambino.
«Mamma, papà.» I miei genitori interrompono la loro conversazione e sorridono. «Possiamo comprare un fratellino?»
«Buona idea, caro» esclama subito mamma. «Io e tuo padre ne parlavamo proprio qualche giorno fa.»
Papà annuisce. «Abbiamo ricevuto un altro buono per cittadini perfetti e nove anni sono un’età perfetta per diventare un fratello maggiore, che ne dici?»
I bambini che crescono insieme a dei fratelli hanno meno possibilità di sviluppare problemi comportamentali.
Sorrido e infilo in bocca una polpetta filamentosa.
«Bene, è deciso, allora: sabato andremo alla Fabbrica dei Bambini Perfetti» stabilisce mamma. «Sarai tu stesso a scegliere tuo fratello.»
Sento un brivido che non conosco nella pancia e nello stomaco.
Mi avrà fatto male il minestrone?
La Fabbrica dei Bambini Perfetti è un enorme rettangolo grigio senza finestre. Fuori non c’è niente. Chilometri di un bellissimo niente. Un niente piatto e vuoto, senza un albero o un cespuglio.
Dentro, la fabbrica trabocca di mensole. Le mensole traboccano di bambini: seduti, le gambe a penzoloni, le mani sul bordo. Come se stessero per saltare giù. Le labbra sistemate a sorriso. Lo sguardo diretto, franco.
Cammino lungo le corsie da ore; ormai non li guardo più.
Sono tutti uguali.
Stessi capelli.
Stessi occhi.
Stesse labbra.
Stesso naso.
Stesso modello.
Mi scappa un sospirone rumoroso. Lo chiudo in bocca all’ultimo momento, ma arriva uno sbadiglio poderoso che quasi mi sloga la mascella. Controllo di essere solo, ma sta proprio arrivando un commesso con la divisa grigia.
Taglio l’angolo e proseguo senza fare troppo caso al buio e ai rumori che ora giungono ovattati dal resto della fabbrica.
In fondo al corridoio c’è una porta. Ci entro senza esitare. È in penombra e piena di cesti e cestoni dall’aria abbandonata.
«Hei, tu!»
Non c’è nessuno in vista.
«Qui sotto, qui.»
Abbasso lo sguardo senza spostarmi. Una mano sporge da dietro un cestone di bambini semi-assemblati.
«Sono qui,» dice la stessa voce.
Spostare il cestone mi tende i muscoli, anche se ha le ruote. È molto pesante.
La mano è attaccata a un braccio che esce da una grata ad altezza pavimento.
Dietro le sbarre luccicano due occhi di un colore che non ho mai visto negli occhi di nessuno.
Mi avvicino per vedere meglio.
«Chi sei? Chi siete?» mi correggo quando capisco che dietro ai primi occhi ce ne sono degli altri.
«Siamo gli imperfetti,» spiega il bambino allungando la mano verso di me. «Aiutaci a uscire.»
Salto all’indietro, casco col sedere a terra e i polmoni strizzati come spugne secche. Cerco mamma e papà con lo sguardo per assicurarmi di essere ancora solo. La stanza è deserta e così il corridoio.
«Non ti preoccupare, qui non viene mai nessuno,» assicura il bambino imperfetto. «Io sono Giacomo, puoi chiamarmi Giac.»
Mi riprendo in fretta, mi alzo e guardo il bambino imperfetto dietro le sbarre. Giac.
«Le regole sono regole: io e te non possiamo parlare.»
Mi giro e mi allontano.
«E allora perché hai spostato il cestone?»
I miei piedi si rifiutano di proseguire, eppure so che la cosa giusta è trovare mamma e papà, prendere un fratello perfetto e tornare a casa.
Ma c’è qualcosa, un pizzicorino tra gli occhi e la gola; un solletichino tra i piedi e le mani; un pruritino tra la testa e il cuore.
Qualcosa che non so come si chiama che prima mi incolla i piedi per terra, poi mi gira a forza e infine mi rispedisce di fronte alla grata.
«E se le regole non fossero fatte per essere sempre seguite alla lettera?» chiede il bambino imperfetto.
Scuoto la testa, mentre un brivido mi attraversa lo stomaco. «Io sono un bambino PERFETTO.»
«Preciso Eccellente Responsabile Fenomenale Esemplare Totalmente impeccabile Temperato Ottimo.» Annuisce e mi sporgo in avanti perché mi pare che i suoi occhi abbiano dentro delle cose che luccicano. «Tu lo sai cosa significa IMPERFETTO?»
«Ovvio, lo sanno tutti.» Rido, ma il bambino imperfetto aspetta davvero una risposta. «Significa che avete dei difetti.»
«Tipo?»
«Ma come tipo? Siete sporchi; spettinati; avete i vestiti di colori che fanno a pugni; disobbedite a tutte le regole; continuate a leggere anche dopo che la mamma ha spento la luce; ai compleanni vi ingozzate di patatine fritte; lasciate sempre la verdura nel piatto; scappate a nascondervi quando vi chiamano; fate sempre quello che vi pare e disobbedite…»
«Amoreee, dove sei?» La voce della mamma mi interrompe, ma potrei andare avanti un bel po’. Io sono uno specialista di cose proibite. Non ne faccio nemmeno una, ho il Punteggio Perfezione più alto di tutti i miei compagni.
Mi raddrizzo, devo tornare indietro prima che la mamma si preoccupi o che qualcuno mi veda qui dietro.
«Facci uscire, per favore.» Di nuovo ho l’impressione che negli occhi del bambino imperfetto ci sia qualcosa che brilla.
Guardo da un’altra parte, cerco di trovare la mamma, ma non la vedo. Ultima occhiata a quegli occhi strani, mi volto e mi allontano con passi pesanti.
«Quindi non sei perfetto in fin dei conti. Hai paura»
Mi blocco sulla porta, lo sguardo sul confine con le corsie più frequentate. Vedo bambini perfetti che osservano composti le mensole e vedo famiglie perfette che li accompagnano sorridendo.
Perché all’improvviso non so cosa devo fare?
«Forse non sei tanto perfetto. Paura e noia! E la curiosità ti ha portato qui! Mica cose da ridere.»
Il brivido nello stomaco ora si è trasferito al cuore, alla gola e si inerpica su per le orecchie e gli occhi. È come quella volta che ho mangiato una doppia dose di zucchero di nascosto e mi sembrava di avere il turbo al cervello.
Torno a girarmi verso la grata e forse anche i miei occhi luccicano adesso perché Giac si sporge e sorride.
«Ti annoi, si vede benissimo!»
«Io non mi annoio mai. Io sono un bambino perfetto.»
«E invece si vede… se no come saresti arrivato qua?»
Non capisco: che cosa c’entra che sia arrivato qua con il fatto di annoiarsi o meno?
«Stavo guardando gli altri bambini perfetti per scegliere un fratello perfetto... forse mi sono perso. Insomma, alla fine mi sono ritrovato qua.»
«Secondo me i bambini sulle mensole ti sembravano tutti uguali e tu ti sei perso cercando qualcosa di diverso.»
«Non dire sciocchezze!»
«Amoreee!!!»
«Devo andare.» Mi giro e scappo verso la mamma che mi chiama.
«Come vuoi, bambino perfetto. Noi siamo qui,» ride forte il bambino imperfetto dietro la grata.
Appena rimetto piede tra gli scaffali dove sono esposti i fratelli perfetti, mi prende una stanchezza infinita. Una di quelle stanchezze che ti pesano addosso come lo zaino del lunedì insieme a quello di altri tre compagni. Spacca schiena.
«Eccoti qua, amore, dov’eri finito?»
Mmm, non ce l’ho una risposta pronta.
E allora sorrido a mamma. Questo funziona sempre.
«Hai scelto?»
Scuoto la testa e mi immagino a giocare nel giardino di casa con Bengi e con un fratello perfetto. Una copia spiaccicata a me.
Lo stomaco comincia a rimescolarsi, la testa si riempie di vento, sul mento e sulle guance c’è il terremoto.
Se lui è uguale a me, ed è uguale ai bambini perfetti delle mensole, io chi sono? E chi ha deciso che i bambini perfetti devono essere proprio così e tutti uguali?
“Non posso,” penso. “Ha ragione Giac: mi annoio.”
Assolutamente terribile!
Assolutamente incredibile!
Mi scappa un sospirone formato maxi e lo lascio andare insieme a quintali di noia accumulata, perché c’è una soluzione.
Una soluzione unica e semplicissima.
«Faccio l’ultimo giro, mamma, mi aspetti alla cassa?»
Mamma ha fretta, si vede e io lo so, questa è l’ora di pranzo e secondo il programma dovremmo essere seduti attorno a un tavolo a mangiare cose sane.
Però, non per niente la mia è una mamma perfetta, così butta il fastidio e la fretta dietro le spalle e si appiccica in faccia un bel sorriso amorevole.
«Certo, amore.»
Un secondo dopo sto correndo in maniera del tutto scomposta lungo i corridoi. Arrivo nella zona polverosa della fabbrica e i miei passi si fanno più leggeri.
Appena sono in vista della finestrella mi lancio sulle ginocchia e faccio gli ultimi metri in scivolata.
«Giac, psst, Giac, sei ancora lì?» bisbiglio con il fiatone e con le mani strette alle sbarre.
E se non ci fosse più nessuno?
E se l’avessi solo immaginato?
In fondo, non ho mai conosciuto un bambino con un nome. Non ho mai nemmeno conosciuto un bambino imperfetto.
«C’è nessuno?»
«E dove vuoi che siamo?» dice Giac mentre le sue mani si chiudono sopra le mie. «Sei tornato per tirarci fuori?»
Muovo la testa su e giù perché non mi fido del tutto della voce.
«Bravo! Sapevo che potevamo contare su di te. Quando ci si annoia si pensano grandi cose.»
«In che senso?» chiedo.
«Dai, ora non c’è tempo, dobbiamo fare in fretta se vogliamo uscire di qui.»
Seguo le istruzioni di Giac e faccio il giro di un corridoio nero, puzzolente e così pieno di ragnatele che è ovvio che nessuno ci passa da un pezzo.
Mi fa un po’ paura e anche un po’ schifo, ma ci entro e basta. Starnutisco, tossico, asciugo le lacrime, inghiotto chili di polvere e mezzo chilo di ragni, poi raggiungo una porta.
Più che una porta è una porticina. Di metallo scuro e con una grossa sbarra arrugginita che la tiene chiusa.
Afferro la sbarra senza pensarci un secondo e mi metto a spingere e tirare. Da dentro, Giac e gli altri bambini imperfetti fanno il tifo per me.
«Vai, bambino perfetto, sei fortissimo!»
«Bravo, tiraci fuori di qua!»
«Spingi, bambino perfetto, spingi e tira con tutte le tue forze!»
Quando ormai sono fradicio di sudore come se avessi fatto il bagno vestito, la sbarra fa CLACK SCRACK GNIIIIICK, poi salta via e vola fino a perdersi nell’oscurità. La porta si spalanca di colpo. Io finisco col sedere per terra e i muscoli delle braccia che urlano e bruciano.
«Ci hai liberati, bambino perfetto,» dice Giac che mi porge una mano per aiutarmi a mettermi in piedi. «Grazie.»
Faccio un segno con la testa come se facessi cose del genere tutti i giorni. I bambini imperfetti scappano velocissimi nell’oscurità del vecchio corridoio e scompaiono in un secondo.
«Vieni con noi» dice Giac. «Saremo liberi e non avrà importanza se siamo perfetti o imperfetti: saremo come siamo e andrà bene così.»
«In che senso?» La faccia di Giac mi fa arrossire: mi sa che ho detto una cavolata. «E la mia mamma? E il mio papà? E Bengi?»
«Loro ti lasceranno libero di non essere sempre perfetto?»
Ci penso un po’, ma in realtà non ne ho alcun bisogno. «No» rispondo. «Ma non posso abbandonarli così, senza una parola. Non è giusto.»
Lo dico anche se ho paura che mi dirà che sono proprio un perfettino e invece Giac annuisce e mi abbraccia. «Ti capisco» sussurra, poi si scioglie dall’abbraccio, ma continua a stringermi le braccia. «Buona fortuna, bambino perfetto. Sei molto coraggioso a restare!»
Giac scompare in fretta tra i ragni e la polvere. Io mi giro e torno ad addentrarmi tra i corridoi. Non mi fermo da nessuna parte, vado direttamente alla cassa dove mamma mi sta aspettando.
«Amore, ci hai messo un bel po’! Tuo padre è già fuori… ma cosa ti è successo? Guarda qua, sei tutto sporco...»
Mi torna il brivido nello stomaco.
«Mamma...»
«Come hai fatto a ridurti in questo modo?»
«Mamma...»
«Sembra che tu abbia spolverato un castello abbandonato con la giacca...»
«Ascoltami, mamma!»
Lei si blocca e si guarda subito in giro, di sicuro controlla che nessuno si sia accorto che ho alzato la voce.
«Mamma, tu mi vorresti anche se fossi imperfetto?»
«Ma che discorso è? Tu sei perfetto.»
«E se non lo fossi più?»
Mi fissa senza dire niente. Sulle sue guance, sotto gli occhi, tra le sopracciglia e di fianco alle narici, vedo tutte le domande e le le parole che le stanno passando per la testa.
«Se non volessi più essere perfetto, mamma, vorresti ancora essere la mia mamma?»
Lei è silenziosa come una statua al museo.
Poi si schiarisce la gola.
«Io sono una mamma perfetta, una cittadina perfetta, una moglie perfetta...» Ha la voce fragile come la tela di un ragno. Torna zitta, si raddrizza, butta uno sguardo alla coda di persone perfette che hanno appena acquistato un bambino perfetto, un animale domestico perfetto.
So già la sua risposta e mi accorgo, sorpreso, che la sapevo anche prima di farle la domanda.
«Va bene così, mamma, ti capisco.» Abbraccio la mia mamma perfetta che all’inizio è un po’ rigida e poi diventa più morbida e mi stringe tra le sue braccia. «Sei molto coraggiosa a restare.»
Mi sciolgo dall’abbraccio e le do un bacio.
«Buona fortuna, amore.»
«Anche a te, mamma. Bacia papà e Bengi per me.»
Io e mamma camminiamo fino alle mensole più vicine, lei afferra un bambino perfetto, lo mette in piedi al suo fianco e gli prende la mano. «Andiamo a casa, amore, papà ci aspetta.»
La guardo avvicinarsi alla cassa insieme al mio bambino perfetto. Potrei essere io tanto ci assomigliamo.
Di nuovo sento un brivido, questa volta parte dalla punta dei piedi, attraversa tutto il corpo ed esce dalla pelle. Mi sembra quasi che mi siano venuti i capelli dritti dall’elettricità.
Non potrei mai essere io quel bambino, perché io sono come sono, e va bene proprio così.
So dove devo andare.
Sorrido e mi butto lungo i corridoi, fino ad arrivare a quello scuro e pieno di ragni, corro fino in fondo dove c’è una lucina che diventa sempre più chiara.
C’è una porta che è stata chiusa male. O forse è stata lasciata aperta.
La apro del tutto e sono fuori.
Giac è appoggiato al muro, le braccia incrociate sul petto e una gamba piegata.
Lo guardo, mi guarda. Sorride, sorrido.
«Andiamo, Perf!»
«Mi chiamo Tommi.»