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Re: [Lab10] Il vento dell'est

@confusa ciao e grazie del tuo gentile passaggio. Sì! ho usato un modo popolare e quasi standartizzato di dire " vado a lavoro". In effetti è corretto vado al lavoro. Per il resto, ti confesso che mi è sempre piaciuto il taglio giornalistico e mi sarebbe piaciuto fare questo mestiere: certo non oggi, che sono tutti a servizio di chi paga la pagnotta. Finiti i tempi della stampa libera. :(
Ciao e grazie ancora. :D

Re: [Lab10] Il vento dell'est

@Kasimiro ciao 
Kasimiro ha scritto: Benissimo @bestseller2020, secondo me se lo avessi inserito avrebbe arricchito il racconto. Non è che non le credo anzi, come scrivi, certe cose si sentono, si percepiscono. Condividere queste sensazioni, il dolore, con il lettore, avrebbe reso più intenso il passaggio. Per non darlo per scontato.
Hai perfettamente ragione! (y)

Re: [Lab10] Il vento dell'est

ciao @Kasimiro grazie delle tue osservazioni.
Kasimiro ha scritto: Come mai questo dubbio? Più che una parvenza sembrerebbe una certezza.
In effetti è una certezza, ma di quelle che mentalmente si mettono in dubbio, della serie, non posso credere a quello che vedo, è troppo doloroso per metterlo come vero nei ricordi.. Questa è una condizione psicologica umana che ben puoi immaginare. 
Kasimiro ha scritto: Perché è così sicura che il figlio è nato dall'abuso? Da cosa lo capisce?
Caro amico! Se lei ha riconosciuto non essere quello del marito perché non crederle? Ci stiamo confrontando sulla idea di racconto e quindi, io ho pensato di rappresentarlo in questo modo. Poi, se vogliamo essere soddisfatti e capire tanti perché, te ne offro uno di motivo. La madre ha visto bene in faccia il suo aggressore durante la violenza. Spesso chi ha subito afferma che mai avrebbe dimenticato quegli occhi. Evidente che dopo la nascita di questo bimbo, dopo averlo stretto a sé per giorni, avrà ritrovato gli stessi occhi.. Una donna non sbaglia mai! Quanto più diventa madre..
Ciao e grazie ancora. :D

Re: [Lab10] Il vento dell'est

@Mid ciao e grazie del tuo gentile passaggio e delle tue osservazioni. Rispondo a queste due osservazioni:
Mid ha scritto: Riferimento alle secolari guerre in quella zona, ovviamente. Ma il protagonista vive in una zona specifica, in una delle innumerevoli valli tra quei monti. Inserire un riferimento più puntuale (per esempio, a una battaglia avvenuta in passato nei pressi di Pristina) avrebbe aggiunto caratterizzazione, e avrebbe reso il protagonista più "reale". Punteggiare il racconto di qualche elemento più tangibile (come nomi di vie o negozi), avrebbe aiutato a renderlo più "autentico". Senza esagerare, ovviamente, giusto per immergere il lettore un po' di più. Siamo in Kosovo, dovrei respirare aria di Kosovo.
Mid ha scritto: può essere una fissa mia, ma credo che sarebbe meglio usare solo i nomi propri, o solo gli appellativi, in questo tipo di frasi. "Saluto mio figlio e mia moglie" oppure "saluto Bogdan e Hana". Usare entrambi mi suona forzato e ha un retrogusto di "infodump". Come detto, può essere una fissa mia. In ogni caso, è una quisquilia.
In questo contest dovevamo dire la nostra per quanto riguarda il tema "racconto". Dopo aver letto tutti i pensieri degli amici a riguardo, ho pensato più attendibile l'idea che il racconto dovesse essere come "Una finestra sulla strada". Quindi niente inutili descrizioni di luoghi e persone.
Sulla seconda tua osservazione, dovevo mettere bene in evidenza che Bogdan e Hana erano figlio e moglie. Non ne avrei avuto altra occasione per farlo, senza poi incorrere in problemi vari. Grazie ancora :D

[Lab10] Il vento dell'est

  
Non posso fare a meno di assaporare questo vento secco e profumato che scende dalla valle.
Ogni mattina, quando esco da casa, ne immagazzino quanto posso dentro ai polmoni, sperando che non sia l’ultimo respiro del giorno, e possa ritrovare la stessa aria che amo, al mio ritorno.”


Due giorni fa mi ha chiamato Andrej per avvisarmi che devo stare attento lungo la strada.
A Banjska si sono scontrati gruppi armati serbi e la nostra polizia kosovara. La tensione è tornata alta. Ed io penso ai tanti morti inutili, a questo punto, che non sono bastati a mettere pace tra di noi.
Povera terra nostra. Che male ha fatto per essere nata tra i confini insormontabili creati dall’uomo.
Questi monti sono uguali a tutti quelli del mondo, non dividono e non seminano guerre. Eppure i nostri Balcani sembrano esercitare il richiamo alle armi per etnie da millenni in guerra. Che cosa avranno mai di tanto malefico nascosto tra le ombre delle foreste, che nascondono la terra e tutta quella vita del sottobosco: me lo chiedo da sempre. Inutile persino porsi domande, inutile cercare risposte. I segreti a volte sono il solo rimedio alle disgrazie.
Anche oggi mi sono messo l’uniforme per andare a lavoro. Da Pristina andrò al confine a controllare il passaggio delle auto, i documenti di chi passa per andare in Serbia. Ho l’ordine di controllare che tutti abbiano la targa kosovara. Un’altra regola imposta dal governo tanto per non farci mancare nulla. A chi non l’ha, forniamo l’adesivo per nascondere lo stemma serbo; dobbiamo farci riconoscere che siamo un altro popolo. Mentre esco di casa saluto mio figlio Bogdan e mia moglie Hana. Li guardo mentre anche loro si apprestano a uscire per andare a lavoro. Mio figlio, trentadue anni compiuti, ha trovato lavoro presso una officina, Hana è impiegata all’ufficio postale.
Per me è di conforto vederli scherzare amorevolmente. Una fotografia che mi porto a lavoro e che mi aiuta a superare una quotidianità ben diversa da quella di casa. Ostilità, diffidenza, a volte disprezzo, celato tra i mezzi sorrisi di chi passa. Al confine la guerra non è ancora finita tra noi.

Ed eccomi per strada. Salgo in macchina e metto in moto. La strada verso il confine passa per la zona boschiva. Sul sedile passeggero ho posato il mio fucile M4 che mi dà fastidio solo a guardarlo. Molto diverso da quel AK74 impugnato durante la guerra contro i serbi. Ora siamo armati dalla NATO, è tutto made in USA. Mi toccherà averlo come compagno di lavoro per ancora cinque anni prima di potere andare in pensione. Non mi sembra vero che il tempo sia passato così. Le strade sono sempre le stesse, le colline e i boschi uguali. Trent’anni fa… “I serbi sono entrati nelle nostre case..”

Come dimenticarlo. I venti minuti di strada che faccio tutti i giorni per andare al posto di frontiera è il momento dei ricordi. La stessa familiarità delle colline che attraverso mi evocano i momenti più drammatici. Quante fughe tra i boschi per fuggire alle avanzate dei serbi che ci davano caccia senza tregua. E ci vollero le bombe su Belgrado per far capire loro la tragedia di Sarajevo.
E comunque siamo nuovamente a capo. Non sono serviti gli accordi imposti con la forza a risolvere il conflitto, che si è solo addormentato come un feroce orso in letargo che si risveglia a primavera affamato di sangue e carne fresca. Ma io sono ancora vivo, mi domando quale fortuna abbia avuto.

Ma da lontano mi accorgo della frontiera che si avvicina. Meno di due minuti e arrivo al piazzale, dove negli uffici c’è già un via e vai di persone. Saluto i colleghi, timbro il cartellino, prendo le consegne, gli ordini del giorno e prendo servizio al posto di blocco. Lascio passare le auto di cui ben conosco i guidatori: i soliti frontalieri. Mi concentro sulle auto che vengono da posti segnalati e che possono trasportare clandestinamente armi, magari a stessa insaputa di chi guida, a loro dire quando li becchiamo.
Sarà un giorno come tutti, non mi pare di vedere motivo per andare diversamente. Verso le undici dovrebbe passare Sveta con la sua vecchia FIAT, un rottame che a mala pena rimane unita nei suoi pezzi. Infatti la vedo arrivare e i nostri sguardi si incrociano. Lei rallenta, timidamente, si avvicina alla linea di stop. Le faccio cenno di andare tranquilla. Sveta! Che storia alle spalle. Neanche un anno di matrimonio e suo marito l’ha lasciata incinta di sei mesi. Ora dovrebbe essere all’ottavo, ma non per questo ha smesso di andare a lavorare. Non se lo può permettere.

E per certi versi neanche io mi posso permettere di non lavorare. Questo via vai di ogni giorno mi aiuta a non pensare. Ma è solo un risultato momentaneo che svanisce alla fine di ogni turno. Smonto da servizio che il sole è nascosto dietro i monti e tutta la valle è aggredita dalle ombre. Salgo in macchina e prendo la strada di casa. Intanto i ricordi stanno ancora lì dove li avevo lasciati. “Assomigli a tuo nonno!”
Questo ripetevamo a nostro figlio Bogdan che chiedeva da chi avesse preso in altezza. “Tuo nonno, padre di tua madre, era quasi due metri. Per questo ti abbiamo chiamato come lui.”

Quando era ragazzo faceva tante domande e spesso era difficile rispondergli. Per fortuna della guerra non gli erano rimasti ricordi, ma non per questo evitava di chiedere dei nonni morti ammazzati durante l’invasione. Già! L’invasione. Me la ricordo bene e sono le luci della macchina che devo accendere a causa della scarsità della luce a farla rivivere. Mi vedo correre tra i boschi protetto dalla oscurità della notte e raggiungere il villaggio dove abito da sposato. Vi è un silenzio spettrale e l’odore della polvere da sparo nell’aria. Il rumore di un veicolo che si mette in movimento. È un semi blindato serbo che si allontana. La cosa mi tranquillizza ma l’inferno si apre sotto ai miei occhi quando raggiungo casa. I miei suoceri non hanno fatto in tempo a scappare e li hanno trucidati in cucina. Hana! Di colpo sento i suoi lamenti provenire dal piano di sopra mischiati alla voce di qualcuno. Salgo lentamente senza fare rumore tenendo ben saldo il mio AK… La mia Hana! Quello che mi pare di vedere è un soldato che sta abusando di lei. “Maledetto” urlo a denti stretti. Lui d’improvviso allunga la mano verso l’arma che ha lì vicino e si stacca da lei: io gli vado addosso armato di coltello perché devo evitare di sparare per non attirare gli altri. Gli vedo la pelle candida della pancia e del bacino lasciato scoperto dai vestiti che si è calato. Gli pianto il coltello con la destra mentre gli tappo la bocca con la sinistra. Sento la lama incontrare l’ostacolo delle ossa quando arriva sotto lo sterno.

Non riuscirò mai a dimenticare come ho ucciso il padre, quello vero di Bogdan. Io e Hana scappammo e ci rifugiammo in un campo profughi dell’ONU. Poi il ritorno per me lungo la linea di combattimento. La sorpresa di ritornare a casa dopo la guerra e di trovare Hana con un neonato tra le mani. Capii che quel figlio non era il mio dal pianto di lei quando me lo fece vedere: “Non potevo abortire senza sapere di chi fosse. Poteva essere nostro figlio”.

Comunque divenne nostro figlio a tutti i titoli. Ed è stato anche l’unico che abbiamo avuto. Il destino quando ci si mette crea le situazioni più incredibili. Hana rimase incinta nuovamente e fummo contenti di dare un fratello a Bogdan. Ma questo bimbo morì durante il parto difficile che mise fine a ogni possibilità di affrontare altre gravidanze. Insomma. Io destinato a fare il padre solo al figlio di quel maledetto che avevo scannato. Ma a pensare bene in fondo è l’unica cosa che abbiamo avuto, anche se nel peggiore dei modi. Questa è la vita. Questo è il risvolto del male che finisce in bene. Bogdan mi pare il giusto risarcimento.
Ecco. Sto arrivando a casa. I ricordi tra poco si disperderanno come spettri tra le tenebre dei boschi. Mi aspetta una cena calda in compagnia di Hana e Bogdan. Tra poco lui si sposerà e andrà via di casa. Ma sono sicuro che ci verrà a trovare tutti i giorni. Non posso fare a meno di lui, è diventato sangue del mio sangue. Sono certo che un giorno mi farà diventare nonno e mi darà la gioia che non ho avuto come padre, e alla fine dei nostri giorni questo terribile segreto morirà con noi. Scorgo le luci della cucina e le ombre dietro le tendine sui vetri. Faccio scattare le serrature delle porte della macchina. Il vento dell’est mi colpisce e per un attimo avverto un brivido sulla schiena. Sono tanti a dire che mai più succederà che assieme al vento dell’est arrivino nuovamente gli invasori. Respiro profondamente e riempio i polmoni di tutte le flagranze della sera. Anche questo giorno è andato.

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