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Re: Mille rivoli di pioggia

Ciao @Adel J. Pellitteri 
mi hai letto tante volte ai tempi del wd (scrivevo sotto altro nome). Grazie per aver letto e condiviso pensieri e sottolineature.
Dovessi mai dare un seguito al racconto, terrò ben presente i tuoi suggerimenti e quelli di altri amici costruttori di mondi.
A presto
Atlab



"ci sono lacrime che mi aspettano nei petali di una rosa"

Re: Mille rivoli di pioggia

Ciao @Nightafter 
farò tesoro dei tuoi suggerimenti. Due cose. Mi leggi dai tempi del wd anche se allora avevo un altro nickname. 
Secondo. Non dimenticare che esponiamo brevi storie nate anche per "sperimentare". Spesso lascio andare la penna per vedere cosa succede.
A volte succede bene, altre no.

A presto
Atlab

Mille rivoli di pioggia

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Mille rivoli di pioggia

A volte bastava un’allusione spinta, un doppio senso alla velocità della luce. Confusione che alimentava un non senso, parole bruciate alla nascita e un filo di voce per pronunciarle. Fino al tramonto. Era allora che Sara diventava di tutti.
Passione che intuiva se stessa aggrovigliandosi in mille rivoli di pioggia, quella che sbatte sulla lamiera provocando solo rumore.
Sara impegnava una sedia al Ministero in qualità di traduttrice. Durante il giorno poteva mostrare il suo corpo, nell’accezione più spinta del termine, sotto forma di collo o di caviglia. Le uniche parti, bianchissime, che dedicava ai suoi colleghi. Svolgeva le sue mansioni in maniera casta ed elegante alimentandosi del rispetto degli altri per una creatura tanto divina quanto impalpabile. Come se, negli anni, avesse ridotto la sfera di comunicabilità ai pochi centimetri di aria che la circondavano. Anzi, le avrebbe fatto orrore anche il solo toccare quelle particelle invisibili in modo consapevole.
Per tutta la vita era stata implacabile, risoluta, opposta, magnetica. Si era mossa tra il compiacimento dei benpensanti e il biasimo dei profittatori, porgendo l’altra guancia, se necessario, alle critiche pesanti e malsane di detrattori e gelosi di cui era circondata.
Le mattine d’inverno erano appena più luminose di quelle estive. Ma la trasformazione era solo apparente. Sapeva in cuor suo di appartenere alla nobile stirpe dei senza terra, di coloro i quali avevano sbagliato pianeta o epoca o entrambi.
Quindi la giovane impiegata recitava la parte ogni mattina, spinta da malevoli sussurri e sopportazione appena accennata.
Poi il lavoro finiva alle sei del pomeriggio.
Sara abitava un appartamento neutro, senza colori. Quelli esplodevano non appena restava sola davanti allo specchio, quello grande della stanza da letto che le offriva la visione migliore di tutto il corpo. Riusciva a togliere il vestito scuro con un sol gesto, facendolo scivolare improvvisamente dalle gambe fino a terra. E poi via il reggiseno con la stessa rapidità. Qui restava qualche minuto a contemplare le forme, il colore, la voglia che aveva di stringere i capezzoli a sangue affondando le unghie in quei palloncini gonfi pregni di tutto il rispetto degli uomini che la guardavano ogni giorno fantasticando sul suo corpo. Cominciava a toccarsi, ansimando, sudando. Poi scendeva con le mani sui fianchi e si sfilava le austere mutandine bianche lanciandole col piede fin sopra al letto. Un gesto di stizza verso qualcosa che non le apparteneva ma le serviva per la quotidiana messa in scena.
La trasformazione di Sara era quasi completa. Adesso era libera di accarezzarsi, ansimando come una scellerata. A volte riusciva a venire solamente guardando l’immagine riflessa nello specchio del suo corpo nudo. Altre aveva bisogno di assumere pose accattivanti, plastiche, come quella di schiudere appena le labbra mentre si toccava le gambe lisce piegandosi in avanti.
Tutto il necessario era un po' di trucco, i capelli sciolti e un vestitino corto e aderente che le copriva appena le parti intime.
E senza indossare altro fuggiva dall’appartamentino bianco per tuffarsi nella gioia dei colori della vita. L’esplosione continuava fino al solito locale per gente come lei. Quelli che scrivevano la loro esistenza cancellandosi dal libro dei vivi per poi incidere le proprie iniziali sulla lapide del vizio assurto a virtù.
Qui diceva di chiamarsi Sandra, e la conoscevano tutti. Giusto il tempo di ingoiare letteralmente un paio di super alcolici per svegliarsi del tutto e abbandonarsi nelle braccia di chiunque l’avesse guardata o rivolto la parola per un attimo. Poteva essere un giovane marito o un gruppo di amici giunti lì solo per bere. E invece si ritrovavano a letto con Sandra, nel separé del locale.
Ingorda ed affamata si faceva possedere in ogni senso, possibilmente in maniera brutale e smodata. Amava farsi picchiare durante l’amplesso e sperimentare posizioni nuove ed elaborate. Non sopportava le parole dolci, non voleva essere chiamata “tesoro” o “amore”. Sandra era solo la cagna di tutti e tale voleva sentirsi fino alla fine dei suoi giorni.
Una volta appagata, e c’erano giorni in cui andava avanti per delle ore, salutava tutti nel locale, compreso il proprietario sempre più soddisfatto dei guadagni che le fruttava quella strana donna vogliosa e implacabile che si donava a tutti per nulla.
Sara rientrava nel suo appartamento ormai sfinita e assonata. Il più delle volte andava a letto ancora vestita. L’indomani si svegliava di buonora, si vestiva di nuovo in maniera casta e rassegnata, raccoglieva i capelli corvini e si recava al Ministero pronta per un’altra giornata di lavoro attenta a non sprecare un solo secondo del poco tempo che il tumore al seno le avrebbe ancora concesso.

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